Il termine “millennials” è ormai entrato nel linguaggio corrente ma cosa si intenda con precisione per Millennials non è sempre così chiaro: chi siano realmente e cosa li caratterizza va oltre la semplice etichetta di “nativi tecnologici” e le implicazioni per il business sono importanti.

Lo dico subito: qualunque descrizione dei millennials che esordisce con “sono una generazione di…” o “i millennials sono choosy” va stroncata immediatamente, perché frutto di incompetenza, ignoranza e dell’arroganza di giudicare il prossimo senza conoscerlo. Vediamo quindi di fare un po’ di chiarezza, fornendo degli strumenti pratici anche per l’engagement dei candidati millennials: tema che non può essere ridotto ad una paginetta.

Per capire chi sono i millennials, dobbiamo ricordarci chi c’era prima di loro.

L’immagine ci mostra le date di nascita approssimative delle persone appartenenti alle varie generazioni, che poi hanno preso “coscienza” dalla fine dell’adolescenza in poi.

Possiamo trovare un inizio simbolico negli anni della grande depressione economica che colpì USA ed Europa e che scatenò la Seconda Guerra Mondiale; anni dove si tendeva ad essere conservatori, grandi risparmiatori, con un senso di responsabilità che portava a mantenere basso il debito (inteso in senso lato) e ad avere una bassa propensione al rischio (es. scelta di prodotti finanziari più sicuri), con un forte senso di responsabilità nel lasciare un’eredità ai propri figli ed alle generazioni future, nel dedicarsi al lavoro prima che al piacere ed a rispettare le autorità, con un forte obbligo morale verso la società.

Con la Seconda Guerra Mondiale cambia l’assetto geo-politico del mondo, coalizzato contro l’Asse Italo-Tedesca (che vide alleati anche il Giappone e molte nazioni dell’Europa dell’Est) e le brutalità del Nazismo. C’era una forte spinta all’identità sociale e nazionale, molto più forte del senso di protagonismo che verrà in futuro. La guerra portò orrore e distruzione, seguite dalle tensioni per la guerra fredda tra USA e URSS ma gettò anche le basi per una rinascita economica soprattutto nelle nazioni sconfitte come l’Italia, grazie alle “generose” iniezioni dei prestiti americani e all’impennata della domanda interna, perché c’era tutto da ricostruire. I valori dominanti erano quelli della sicurezza, del comfort e della familiarità con l’ambiente circostante: era il “boom” del posto fisso vissuto in Italia.

In USA ci furono appunto la prima e seconda generazione di Boomers: rispetto alle precedenti, queste furono generazioni che perdurarono di più a livello culturale, includendo persone anche con 20 anni di differenza, e vantarono oltre 70 milioni di appartenenti. Sono gli anni delle grandi rivoluzioni sociali e culturali, dell’esplosione demografica ed economica, degli assassini di Kennedy e Martin Luther King, dei movimenti civili per i diritti umani e la guerra del Vietnam, che in Italia abbiamo visto come un eco lontano per via della dipendenza dagli USA mentre eravamo impegnati a ricostruire il paese (ricordiamoci che siamo sempre un paese “sconfitto”.)

La crisi del petrolio (che contribuirà ad innescare le successive crisi economiche come un domino), la memoria delle stragi del Vietnam, il Watergate con Nixon, l’avvento dell’AIDS etc. portano i boomers di II generazione (dal 1955 circa in poi), che si erano persi buona parte degli eventi precedenti, a perdere fiducia nel governo e nelle autorità in genere (così come in Italia più avanti) e rafforzano quel sentimento di allontanamento e scetticismo sui media ed istituzioni a favore anche di un certo narcisismo, indipendenza ed auto-aiuto.

Grava inoltre sui Boomers della II generazione la pressione ad eguagliare i risultati della prima, ma senza le opportunità professionali ed economiche della precedente generazione pur in un contesto di relativa abbondanza. Già da qui si inizia a vedere la richiesta individuale che pesa sulle nuove generazioni, senza però gli strumenti e le opportunità a disposizione delle precedenti.

Dal 1966, si inizia a parlare di Generazione X, in certo senso i pre-millennials. Sono i primi ad essere descritti come la generazione “bruciata”, quelli affidati e cresciuti dagli asili, nonne e davanti alla televisione. Sono infatti gli anni in cui parte rivoluzione ed emancipazione femminile (avvenuta proprio tra i boomers e la generazione X) dove le donne iniziano a riappropriarsi della parità a livello sociale ma non senza nuovi problemi da affrontare, come la rivoluzione della famiglia e dei ruoli al suo interno. Emerge il conflitto tra maternità ed indipendenza lavorativa, il divorzio non viene visto più come un tabù ma una conquista, emerge la necessità per i genitori di lavorare di più a causa delle famiglie composte da un solo genitore, della crisi economica che aumenta gradualmente e ciò si traduce in meno tempo da dedicare ai figli, la cui cura viene delegata ad altri, portando proprio una delle prime fratture generazionali.

La “Gen X” è caratterizzata da livelli ancor più alti di scetticismo e sfiducia nella società e nel sistema che sfociano nel disinteresse verso ciò che accade tutto intorno: l’atteggiamento è un costante “cosa c’è per me” se ti dedico il mio tempo ed energie. Sono la generazione più istruita tra tutte le precedenti grazie all’impennata nel conseguimento delle lauree (che poi complicherà di molto il mondo del lavoro) che va di pari passo a quella crescente maturità, cautela e pragmatismo (il lato positivo della disillusione) rispetto ai propri genitori, soprattutto quando si parla della costruzione di una famiglia per il timore di non fornire ai propri figli quella stabilità economica, affettiva e finanziaria che meritano per via del clima di instabilità che va a consolidarsi.

All’alba del nuovo millennio, abbiamo quindi i primi, veri “Milennials”, quelli della generazione Y, detti anche Eco-Boomers.

Son forse la più grande coorte in termini di persone nate negli stessi anni dai tempi dei Boomers di prima generazione, ma la cosa importante è che sono i primi “veri” nativi digitali, quelli nati con una tecnologia incredibilmente sofisticata in mano, abilissimi nell’usarla ma di cui hanno ben poca consapevolezza riguardo le implicazioni legali (es. nessuno legge i contratti per un nuovo software o utilizzo di un cellulare).

C’è una generazione ibrida tra la X e la Y, chiamata X-ennials (pronuncia “exennials”) che ha vissuto il meglio della generazione analogica e quella digitale, essendo composta da persone che hanno vissuto in pieno gli effetti dell’informatizzazione partendo dai primissimi computer, quelli così grandi da riempire una stanza, abbastanza giovani da impadronirsi intuitivamente della tecnologia del futuro ma abbastanza cresciuti da poter beneficiare del pragmatismo, grande creatività e valori della precedente generazione e da una vita libera dagli smartphone e dalla tecnologia che da lì in poi sarebbe arrivata.

La generazione Y è scaltra, rapida nelle decisioni, dispone di una visione del mondo attraverso la lente delle nuove tecnologie che per formae mentis è preclusa alle precedenti, continua molti trend già partiti con gli X-ennials portandoli a livelli ancor più alti ed inizia ad essere immune alle più tradizionali strategie di marketing e di vendita perché è cresciuta col costante bombardamento mediatico e commerciale, sviluppando i naturali anticorpi.

Dispone di una quantità inaudita di informazioni grazie ad internet (ed in particolare grazie a Google) ma manca di quella “saggezza cumulativa” grazie al passaggio di testimone tra le precedenti generazioni che ora è fortemente ridotto a partire dalla generazione X. Infatti non sempre i membri della generazione Y sanno gestire la ricchezza di opportunità date dalla tecnologia ed informazione ed in tanti (troppi) sono vittime sia delle bufale di internet che della dipendenza da social network, like e selfie inclusi, a discapito della vita reale.

Tutto è accelerato, nel bene e nel male: una grande immediatezza è accompagnata da superficialità e da un senso di ribellione e sfiducia nelle istituzioni in senso lato ai massimi livelli storici.

Pur essendo la generazione che gode di una prolungata era di pace, senza guerre (almeno di tipo militare), di abbondanza e, per forza di cose, del massimo sviluppo della scienza in tutti i suoi ambiti di applicazione – dalla medicina all’intrattenimento – è forse la generazione più infelice per via del costante senso di incertezza ed ansia per il futuro, per la sperequazione sociale e divisione iniqua delle risorse economiche.

La generazione Z è quella già nata, ma che ancora deve esprimere i propri tratti caratteristici: per ora sappiamo di più sull’ambiente che li farà crescere che su di loro.

Un ambiente molto diverso dai precedenti, caratterizzato da un livello crescente di tecnologia che ormai è integrata nei sistemi educativi e lo sarà sempre di più in tutte le branche del sapere: potrà sprigionare l’enorme potenziale creativo dell’essere umano o peggiorare ulteriormente quell’ottundimento mentale e relazionale collegato alle dipendenze dai social ed un eccessivo affidarsi alla tecnologia. È probabile che la generazione Z sarà una versione al cubo della Generazione Y, con pregi e difetti entrambi aumentati esponenzialmente.

Come ci è utile sapere tutto questo in ambito Risorse Umane?

Capendone la psicologia di massa, possiamo capire anche come adattare le politiche aziendali per l’engagement e la retention dei talenti millennial.

Innanzitutto dobbiamo tenere a mente che, sebbene vi siano elementi di continuità tra tutte le generazioni, le generazioni di millennials hanno più continuità fra loro rispetto alle precedenti, con particolare riferimento alla frattura avvenuta tra i “boomers” del dopo-guerra e la generazione X. E che quanto segue sono considerazioni solo su vasta scala, perché a livello individuale, confrontando solo i singoli individui, le differenze o somiglianze con le precedenti generazioni possono apparire meno evidenti di quel che in realtà sono.

Ogni generazione infatti è stata esposta a macro-eventi di radicale importanza che hanno inciso profondamente sulle vite dei loro appartenenti, sulle loro percezioni, come un tatuaggio indelebile o una cicatrice condivisi. La crisi economica e l’avvento dei social network hanno colpito più generazioni ma con effetti diversi a livello sociale, culturale e dei valori: per quanto questi siano grosso modo gli stessi in astratto, assumono priorità ed espressioni nella quotidianità radicalmente diversi.

Vero che in Italia molti fenomeni sono arrivati in ritardo ma l’avvento dell’email, di internet e per ultimo dei social ha drasticamente ridotto il gap temporale rispetto agli USA (anche per questo le date di nascita delle generazioni sono approssimative).

Un esempio sui valori. L’amicizia prima si manifestava soprattutto vedendosi di persona, oggi mantenendo anche forti contatti ed interazioni sui social; la stabilità è sempre stata un valore ma per le nuove generazioni questa ha dovuto lasciare più spazio alla flessibilità per far fronte all’instabilità lavorativa (come confermato anche da una mia ricerca sui lavoratori precari già nel 2010) e lo stesso discorso si può dire del valore dell’ecologia che per forza di cose è aumentato, visti i danni al pianeta che minaccia di più i nuovi arrivati.

Grazie o per colpa dei social network come Facebook, che da un lato hanno avvicinato persone lontane e dall’altro hanno allontanato tantissimo le persone vicine, oggi alcuni dei valori dominanti sono la rapidità comunicativa (utile ma col costante rischio della superficialità e della iper-semplificazione), la virtualizzazione dei rapporti, la condivisione (di contenuti, non tanto di reali risorse) ed il protagonismo, complice un dilagante narcisismo che porta molti millennials a male-interpretare il diritto di esprimersi e di affermarsi come individui, privato però del dovere di informarsi adeguatamente e di rispettare le autorità.

Paradossalmente, viene meno il valore del confronto vero e proprio, dato che le comunicazioni lampo in forma scritta modificano le regole del gioco e gli stessi social, proponendo contenuti già in linea con le credenze e convinzioni degli utenti, contribuiscono ad una chiusura mentale ed arroccamento psicologico, al sicuro tra i propri simili e lontano da verità irritanti – per quanto corrette – che è molto più facile evitare che affrontare.

Un’espressione di tutto questo la troviamo in tanti programmi TV di grande successo (più o meno meritato) da Uomini e Donne a Master Chef o X Factor (X, appunto), dove il protagonista è la persona comune che deve lottare in un contesto dove il vincitore può essere uno solo.

In particolare, i millennials dalla tarda generazione X in poi – quelli che nel 2018 avranno circa 40 anni – sono generazioni che stanno vivendo i momenti apicali della crisi a tutti i livelli: economico-lavorativa, sociale, dello Stato, della famiglia, della religione, dell’ambiente e della cultura, reagendo poi secondo le proprie inclinazioni individuali.

Più si va avanti, più i millennials si ritrovano a pagare il prezzo degli errori delle precedenti generazioni, di politiche miopi e a breve termine fatte per prendere voti senza portare risultati consolidati.

Ecco dunque i problemi e le sfide che i millennials hanno ereditato dai boomers, che la generazione X ha messo in evidenza ma non risolto e la relativa percezione sociale.

In generale, i millennials vivono un forte senso di tradimento da parte di tutte le istituzioni e di smarrimento, perché ogni bussola sociale che prima dava le direzioni, ogni patto sociale in cui c’era un nesso causale è saltato o sta saltando, complice una realtà sempre più veloce, rapida e frenetica, caratterizzata da un continuo cambiamento a cui è difficile stare dietro anche per chi ci è nato dentro. C’è chi lo subisce e chi si crea la propria bussola personale.

Vivono con la pressione dei propri genitori e nonni a raggiungere gli stessi traguardi tipici del precedente stile di vita basato sulla sicurezza e sul posto fisso che però ormai è in estinzione; vivono lo Stato Italiano come il peggiore dei nemici perché vede ogni imprenditore e lavoratore come un potenziale evasore sino a prova contraria e porta via tra il 50 e 70% dei guadagni della libera professione, senza restituire in servizi dal reale valore.

I millennials stanno vivendo in pieno il dramma della riduzione degli stipendi, sia nel settore pubblico che privato, fatto che ha generato un circolo vizioso che rafforza il perdurare della crisi economica: con meno potere d’acquisto e la tendenza al risparmio causata dal lavoro precario (la legge Treu sul lavoro interinale e la successiva legge Biagi sono rispettivamente del 1997 e 2003) le persone spendono meno, dunque le aziende vendono meno e guadagnano meno e fanno sempre più fatica ad alzare quegli stipendi che sono necessari ai dipendenti per lo scambio di prodotti e consumi.

In particolare, le grandi aziende quotate in borsa subiscono l’ulteriore pressione dagli azionisti a massimizzare a tutti i costi i guadagni anche in settori già maturi, con l’unica opzione di abbassare gli stipendi, influenzando così il mercato. In tale contesto, i millennials riescono sì a preservare la propria autonomia economica ed indipendenza dal nucleo familiare di origine ma con sempre più difficoltà e sono sempre meno quelli che riescono ad accumulare abbastanza soldi da potersi permettere l’acquisto di una casa.

Infatti, il numero di lavori qualificati e ben pagati all’interno di aziende dove poter maturare esperienze significative e far carriera è drasticamente minore rispetto al passato ed il mondo risente degli effetti negativi della globalizzazione e delle forme estreme di capitalismo liberalista incontrollato.

Ricordiamoci anche di come è cambiato il mercato immobiliare, complice una facile strumentalizzazione per fini speculativi delle leggi che lo disciplinano, dove le cifre per abitare a distanze ragionevoli dal proprio luogo di lavoro sono ormai inaccessibili ai più: un affitto può facilmente portare via metà dello stipendio medio di un single e, come accade a Milano, non basta uno stipendio intero per permettersi un piccolo monolocale in centro.

Questo è uno dei tanti problemi che le vecchie generazioni, ad oggi dotate di una casa propria, non devono affrontare.

Di conseguenza, anche il patto sociale riguardante gli investimenti economici e temporali nello studio è completamente saltato.

Innanzitutto la scuola nel suo insieme è inadeguata alle esigenze contemporanee: con il suo approccio nozionistico e tecnico-teorico, né pratico e né creativo, è ancora troppo impostata per soddisfare la domanda di una forza lavoro istruita ma acritica tipica dell’era industriale. Come si può pensare che quel tipo di formazione sia ancora funzionale nell’era della velocità?

Ricordo di aver incontrato nei miei viaggi un Giudice romano assegnato al tribunale di Sassari che mi disse “Ai miei tempi ognuno di noi aveva la certezza che avrebbe trovato lavoro, l’incognita era solo presso chi e quanto presto. Oggi è tutto cambiato e lo vedo con i miei figli.”.

Ma non è solo l’università, dove oggi ci sono talmente tanti laureati (educati tra l’altro con troppa formazione tecnico-teorica e poca o nessuna formazione pratica) che il titolo ha perso di valore, sostituendo spesso il diploma superiore: il dramma è costituito da un sistema che prima ha incitato i millennials a dotarsi di spirito critico ed essere pagati per pensare come innovatori creativi e membri attivi di una comunità aziendale, per poi scontrarsi con una realtà lavorativa che vuole degli Yes-men pronti ad immolarsi per la causa, possibilmente che lavorino 10-12 ore al giorno come dipendenti con straordinari non pagati, non causino problemi e producano risultati al minor costo possibile.

Di conseguenza sono sempre meno le persone disposte a fare lavori umili e distanti dal percorso di vita e di studi scelti per sé stessi: persone che è facile definire “choosy” solo perché non accettano più realtà imposte da altri in cui vengono pure mal pagati.

I millennials non vogliono più sacrificare la loro vita per i sogni altrui, soprattutto se appartenenti alle vecchie generazioni: vogliono avere la possibilità di realizzare i propri.

Da anni si parla anche della crisi della famiglia come istituzione e abbiamo avuto ondate di millennials nati da famiglie di genitori-PeterPan che, a torto o ragione, hanno cercato di comportarsi come amici dei figli anziché come genitori (ricordiamoci anche i tempi della grande austerità in cui c’era un eccesso opposto e si dava del “lei” al proprio padre e madre), che li hanno difesi sempre e comunque contro gli insegnanti (sia dagli incompetenti, sia da chi faceva con coscienza il proprio lavoro) e che li hanno educati dando loro tanto, forse anche troppo – inclusa l’idea che tutto gli è dovuto a prescindere dai propri meriti – per compensare quelle privazioni vissute specialmente da chi è nato nella povertà dell’immediato dopo-guerra.

Davanti alla nota corruzione dello Stato e manipolazione dei media, che a livello mondiale ha portato ad una Terra inquinata come non mai, molti millennials si rifugiano su Internet nel tentativo di trovare quelle verità che le fonti ufficiali negano, più reali del Re, senza però avere necessariamente gli strumenti per distinguere il vero dal falso: ecco perché se da un lato internet è una preziosa fonte di informazioni, c’è stata anche un’esplosione negli ultimi anni di teorie del complotto, no-vax (anti-vaccinisti), sostenitori di omeopatia e metodo Hamer, terra piatta e dell’allunaggio inesistente, di alieni, scie chimiche, signoraggio bancario ma anche diete radicalmente sbilanciate e nocive (come la fruttariana), e chi più ne ha più ne metta, complice una disinformazione dilagante unita ad una forte sfiducia anche verso la scienza, perché associata all’establishment, allo Stato ed alla “casta”.

Là dove prima la punizione era quella di mandare i figli a letto senza cena, oggi i figli ricattano i genitori rifiutandosi di mangiare; là dove prima qualcosa era vero se veniva detto in TV, per molti oggi è falso se viene detto in TV ed è molto più vero se lo dice l’eroe di riferimento su Youtube.

Da qui anche uno stile di vita più auto-lesionista adottato da molti millennials (non da tutti, ci mancherebbe) soprattutto della generazione Z che, nonostante le varie campagne di prevenzione, hanno una preoccupante tendenza sin dai 12-14 anni all’uso delle droghe (dalle sigarette ed alcool sino ad altre sostanze psicotrope ancor più nocive) a diete pericolose e squilibrate, al sesso precoce e ad altre pratiche, come piercing e tatuaggi (fisicamente dolorosi) che li bruciano a livello psicologico ed emotivo, in modo profondo, perché fatte senza un’adeguata maturità. Certamente tutto questo non è mai stato appannaggio esclusivo di una sola generazione ma mai precoce come in questa.

Certe mode, infatti, vengono importate come strumento per differenziarsi in modo radicale dal vecchio ed omologarsi al nuovo ma private del significato originario, come accade per i tatuaggi così di moda oggi: per le popolazioni aborigene della Polinesia hanno significati ben precisi nella loro società, non solo “belli” (a chi piacciono).

In sostanza, abbiamo una generazione incompresa, che ha malamente sbattuto la faccia contro le promesse non mantenute dalla società; una generazione che viene incolpata del proprio insuccesso lavorativo ed economico sempre e comunque, anche se si ritrova ad operare in un contesto di nuova normalità – che fa rima con scarsità – disponendo degli strumenti tipici delle vecchie generazioni, ormai obsoleti, come la scuola.

Il senso di rifiuto, inadeguatezza, rabbia ed impotenza è probabilmente ai massimi storici.

Come la storia ci insegna, tale malessere può essere una potente spinta al cambiamento ed all’innovazione, specialmente se si riesce a fare davvero buon uso della nuova tecnologia, intervenendo sui suoi lati negativi.

Per questo i millennials hanno come generazione un altissimo potenziale creativo e di innovazione e l’aspetto forse più significativo è comprendere come ogni individuo di questa generazione reagisce in modo soggettivo a tutto questo: ci sono i virtuosi e gli sbandati come in ogni generazione, i conformisti ed i ribelli.

Più in dettaglio, c’è chi si arrende e vive alla giornata come una cicala, accontentandosi del supporto dei genitori sino a quando si può andare avanti e poi si vedrà, diventando però un peso morto per la società che difficilmente troverà e saprà tenersi un lavoro; c’è chi ripudia il sistema e cerca di uscirne come può (emigrando verso un altrove migliore o creando una sorta di oasi dove isolarsi), chi ancora non ha capito che le promesse che tutto gli è dovuto non verranno mai mantenute e continuerà ad auto-sabotarsi.

C’è chi riesce ad allinearsi alle richieste del sistema attuale occupando i posti fissi che ancora consentono una vita simile alle vecchie generazioni e chi, invece, prende con spirito critico quel poco che ritiene utile dalle precedenti generazioni e soprattutto si ribella, decide che il sistema non gli piace e lo vuole cambiare – innanzitutto per sé stesso, poi per il prossimo – con un obiettivo chiaro, un sogno da realizzare, nessuna voglia di fare il dipendente delle vecchie generazioni e focalizza tutte le proprie energie per diventare un imprenditore con un progetto o idea distruttiva del vecchio, che sfida il sistema attuale ed è fortemente innovatrice.

Ora, qualunque azienda che voglia entrare in una logica di engagement dei talenti presenti e futuri deve ritrovare il suo concetto di responsabilità sociale d’impresa, re-investendo nella formazione interna, nelle carriere verticali e orizzontali con più mobilità tra le professioni e valorizzazione delle competenze trasversali perché sono le uniche realmente cumulative nell’era della rapidità e del mutamento, nell’umanità del lavoro, nelle forme di assunzione diretta (il lavoro interinale può ridurre anche del 40% lo stipendio potenziale di un dipendente, che poi si riduce in minor potere d’acquisto) e, di conseguenza, nel focus del recruitment.

Oggi il modello dominante della ricerca e selezione prevede di trovare la persona che più di altre riesce a soddisfare nel breve periodo tutte le richieste dell’impresa che assume: il focus deve spostarsi verso l’analisi del potenziale, delle attitudini e dei talenti a lungo termine, dando la possibilità a chi cerca un lavoro serio di dimostrare cosa sa fare senza più discriminazioni di età e di background. Va infatti abbandonato quel criterio ormai diffuso ma non sempre necessario né utile secondo cui un candidato deve a tutti i costi avere la laurea (non parlo di formazione), una carriera verticale ed un’esperienza già maturata nello stesso settore di destinazione per poter essere considerato.

Non c’è più garanzia che il passato sia predittivo del futuro vista la velocità con cui cambia il mondo: i millennials questo lo sanno e seguiranno per poco tempo chi gli offrirà solo dei soldi. Invece seguiranno a lungo o per tutta la vita le imprese che sapranno accoglierli per le loro caratteristiche generazionali, come il desiderio di essere protagonisti, offrendo non un management ma una leadership compartecipata che ponga rimedio per quanto possibile agli errori del sistema ricaduti sulle spalle delle ultime generazioni.