Premessa: quanto segue è una sintesi della ricerca esplorativa svolta assieme al prof. Stefano Paneforte, una lettura lunga ed impegnativa di interesse per altri ricercatori. Per i non-tecnici, consiglio di utilizzare l’indice interno presente appena dopo l’abstract, per cercare (premendo CRL+F sulla tastiera del vostro PC) direttamente i capitoli di vostro interesse.

Abstract

Il tema del lavoro è sempre centrale in qualsiasi società contemporanea e quella italiana non fa eccezione, essendo per di più una Repubblica fondata sul lavoro. In particolare, in tempi di crisi economica e culturale dove il lavoro scarseggia, il tema di chi e come riesce a trovare il lavoro è di interesse primario sia per il mondo scientifico (quello delle scienze psicosociali ed economiche in particolare), sia di interesse pratico per gli attori sociali interessati in prima persona.

Pertanto, questa tesi parte da un precedente lavoro che confrontava i livelli di soddisfazione lavorativa ed i valori personali tra due categorie di lavoratori, quelli con contratto a tempo indeterminato e quelli con forme di contratto atipico – o meglio precario – con un campione rappresentativo della popolazione locale, per introdurre il tema dell’occupabilità o “employability” come costrutto psicosociale e caratteristica individuale che porta poi ad uno stato di occupazione e lavoro, mettendo tale costrutto in relazione con le competenze (dirette e trasversali), con l’intelligenza, col contesto e le opportunità di lavoro da esso offerte.

Il lavoro è centrato su un’importante ricerca bibliografica sul tema, per poi andare a contestualizzare le informazioni raccolte, grazie al ruolo di testimone privilegiato dell’autore, completando il tutto con un piccolo strumento d’indagine: un questionario dalle finalità meramente esplorative che ha in parte lo scopo di verificare come si è evoluta la situazione occupazionale per i partecipanti alla precedente ricerca del 2009-2010, in parte lo scopo di confrontare quanto sostenuto dai grandi autori sul tema dell’employability con un contesto economico-sociale molto specifico, quale quello del Sardegna e le sue caratteristiche culturali e non.

COMPETENZE ED OCCUPAZIONE NEL 2014
DA UNA RICERCA EMPIRICA SULLA “JOB SATISFACTION” E VALORI ALL’OCCUPABILITA’

Dott. Mattia Loy

INDICE

PARTE I

INTRODUZIONE

    1. Riassunto della precedente ricerca sulla job satisfaction e valori personali
      Ricerca bibliografica sull’employability
    1. 2.1. Competenze
      2.1.1. Competenze, apprendimento ed intelligenza
      2.1.2. Altre qualità utili nel lavoro
      2.2. Contesto sociale contemporaneo, flessibilità e precariato
      2.3. Employability: occupabilità
      2.3.1. Competenze chiave del lavoratore “employable”, Ott
      2.3.2. Employability. come costrutto psicosociale a 3 dimensioni
      a) La capacità di adattamento
      b) L’identità di carriera
      c) Capitale umano e sociale
      2.3.3. Disoccupazione, ricerca del lavoro e re-employment:
      2.3.4. Misura disposizionale dell’employability (DME)
      2.3.5. Il contributo di Rifkin sull’occupabilità
      2.4. L’occupazione in Italia: dati recenti
      2.4.1. Le professioni del futuro
    2. Bibliografia
    3. PARTE II
    4. Ricerca esplorativa
    1. 1.1. Obiettivi e ipotesi
      1.2. Il questionario utilizzato
      1.3. Considerazioni sui dati grezzi
    2. Considerazioni conclusive
    3. BIGLIOGRAFIA
    4. APPENDICE A – Il questionario
    5. APPENDICE B – Esempi di classificazione delle competenze
    6. RINGRAZIAMENTI

PARTE PRIMA

Introduzione

L’oggetto di questa tesi prende spunto da una precedente ricerca empirica, condotta presentata al Convegno Nazionale “Nuovi Codici del Lavoro” del 29/30 Aprile 2010.

In tale ricerca, qui di seguito sintetizzata, si è andati ad esplorare i livelli di “soddisfazione lavorativa” e valori personali confrontando la categoria di lavoratori con contratto a tempo indeterminato con la macro-categoria dei lavoratori atipici, ovvero i “precari”.

Data la centralità del fattore “occupazione” nell’Italia contemporanea, sempre più integrata nell’Unione Europea ed inserita in un mercato globalizzato, con relativi oneri ed onori, il mercato in generale ed il mercato del lavoro in particolare si sono ulteriormente evoluti in un percorso inarrestabile, dove nuove realtà e nuove variabili si intrecciano nel costituire il presente vissuto e percepito.

Occupazione ed “occupabilità”, competenze, scelte di vita, cultura e politica si intrecciano assieme ad altre variabili nel definire lo scenario contemporaneo ed anticipare quello futuro imminente.

Stanno cambiando i valori degli Italiani, così come le modalità per trovare lavoro, le competenze richieste sia dirette che trasversali. Ma come? Col presente lavoro andremo ad esplorare questi aspetti, anche grazie ad una breve indagine sul campo, partendo proprio dalla ricerca del 2010 come trampolino per il tema portante connesso alla soddisfazione lavorativa, al mondo del precariato ed, in generale a quello dell’occupazione: il costrutto dell’occupabilità o “empolyability”.

2 – Ricerca bibliografica sul’employability

Col presente capitolo, iniziamo a considerare il costrutto dell’employability o “occupabilità”, anche se è importante soffermarsi prima sulle competenze. Esse, infatti, sono essenziali nell’ampio discorso dell’occupabilità, in quanto colonna portante dello scambio tra danaro e prestazione professionale.

2.1 – Competenze

In letteratura, per “competenza” si intende in generale quella capacità di svolgere un compito con risultati prestabiliti, spesso entro un determinato periodo di tempo, impiego di energia, o entrambe. In altre parole, si tratta delle abilità che si possiede e che possono essere divise in abilità generali e specifiche rispetto ad un dato “dominio”. Ad esempio, nel campo del lavoro, alcune competenze generali includerebbero la gestione del tempo, il lavoro di squadra e di leadership, motivazione di sé e così via, là dove le competenze specifiche del dominio sarebbero utili solo per specifici lavori. Le abilità di solito richiedono determinati stimoli e situazioni ambientali per valutare il livello di abilità che viene mostrato e utilizzato.

Le persone hanno bisogno di una vasta gamma di competenze, al fine di contribuire all’economia moderna. Attraverso la tecnologia, i luoghi di lavoro stanno cambiando ed i dipendenti devono possedere svariate competenze per essere in grado di evolvere assieme ad esso: secondo la nostra esperienza, comunicazione, uso del computer, approccio al cliente, empatia, ascolto attivo, apprendimento, matematica di base, organizzazione, risoluzione dei problemi (spesso nota col termine inglese di “Problem Solving”), ricerca e raccolta di informazioni, lavoro di gruppo (teamworking) sono certamente tra le principali.

Alcuni “domini” di competenze possono essere quelli del lavoro, vita, persone, sociali, morbide o trasversali, dure o dirette, che possono essere sviluppate a vari livelli.

Dando una prospettiva generale, le competenze di vita, o “Life skills”, sono comportamenti di “problem solving” (risoluzione dei problemi) utilizzati in modo appropriato e responsabile nella gestione delle questioni personali. Si tratta di un insieme di competenze umane acquisite tramite l’apprendimento (insegnamento) o esperienza diretta che vengono utilizzati per gestire i problemi e le domande comunemente incontrati nella vita umana quotidiana. Il tema varia notevolmente a seconda delle norme sociali e le aspettative della comunità.

Le abilità sociali, o “social skills”, facilitano l’interazione e la comunicazione con gli altri. Le regole sociali e le relazioni sono create, comunicate, e cambiate secondo modalità verbali e non verbali. Il processo di apprendimento di tali competenze è noto come “socializzazione”.

Secondo Hariet Rifkin, le competenze personali includono la capacità di comprendere sé stessi e moderare le nostre risposte; la capacità di parlare in modo efficace ed empatizzare correttamente; la capacità di costruire relazioni basate sulla fiducia e sul rispetto così da generare interazioni produttive. Secondo il Macmilland Dictionary (Uk), una definizione britannica è “la capacità di comunicare efficacemente con le persone in modo amichevole, soprattutto nel mondo degli affari”. Con “competenze personali” si intende includere sia le competenze psicologiche che le competenze sociali, ma è meno inclusiva di abilità di vita.

Come noto in psicologia del lavoro grazie all’ampia letteratura a riguardo, le competenze possono essere distinte anche in competenze dirette oppure trasversali, note in inglese rispettivamente come Hard & Soft skills.

Per competenze trasversali si intendono quelle competenze relative al quoziente di intelligenza emotiva o “EQ” di una persona, collegate anche ai tratti di personalità, abilità sociali, comunicazione, lingua, abitudini personali, cordialità e l’ottimismo che caratterizzano le relazioni con altre persone. Le competenze trasversali sono complementari alle competenze dirette, in quanto parte del QI di una persona (quoziente intellettivo e sono alla base di molti requisiti occupazionali di e di tante altre attività.

Le competenze dirette, o Hard skills, sono invece le abilità relative ad un’attività o situazione specifica. Queste abilità sono quantificabili con maggiore facilità rispetto alle competenze trasversali, collegate alla propria personalità.

Nell’appendice B si trovano due esempi di classificazione e declaratoria di competenze: il primo ad opera del prof. Stefano Paneforte, docente di organizzazione e gestione delle risorse umane presso l’Università di Roma – Tor Vergata; il secondo ad opera di Logya, del filosofo e coach Cesare Caterisano. Le differenze sono immediatamente visibili.

Le competenze possono avere vari livelli di sviluppo, passando dal semplice “potenziale” che è appunto latente, in attesa di emergere e venire sviluppato grazie agli stimoli provenienti dal contesto, che poi si evolve nell’essere abile, competente ed esperto.

Il termine “competenza” è quindi prossimo al concetto di “saper fare”, ma è interessante notare anche quanto sostiene il dizionario Treccani: “competenza”, competènza s. f. [dal lat. tardo competentia, der. di competĕre ], col significato principale di “essere competente”. Si tratta dell’idoneità e autorità di trattare, giudicare, risolvere determinate questioni. In particolare, nel diritto processuale, è la misura della pere, giurisdizione attribuita a ciascun ufficio giudiziario per materia, valore o territorio.

Il secondo significato esteso dal primo è la capacità, per cultura o esperienza, di parlare, discutere, esprimere giudizî su determinati argomenti e, più in generale, occuparsi di una determinata questione poiché si ritiene che la persona sia dotata di un insieme di conoscenze teorico-pratiche su una determinata questione, sufficienti affinché essa possa svolgere un compito o ricoprire un ruolo con consapevolezza, responsabilità e cognizione di causa.

Altri significati meno frequenti vedono le “competenze” come compenso per una determinata prestazione, soprattutto professionale.

Non stupisce quindi che, almeno in alcuni casi, si parli di competenze come di abilità personali applicabili e spendibili in contesti lavorativi.

Le competenze, inoltre, possono essere viste in rapporto alla “conoscenza”, ovvero il sapere teorico, il saper essere (sapersi relazionare e comportare in contesti sociali) ed il saper fare, ovvero possedere un metodo per ottenere un determinato risultato: si ha il così detto sapere contestualizzato.

2.1.1 – Competenze, apprendimento ed intelligenza

Il concetto di competenze è collegato in un certo qual modo anche al concetto di intelligenza, in quanto nessuno nasce “imparato” ma le competenze si acquisiscono e si affinano col tempo, con lo studio, l’educazione e la pratica, ovvero gli stimoli ricevuti, per quanto il fattore genetico possa portare vantaggi o svantaggi ed incidere sul potenziale posseduto da ciascuno rispetto a diversi compiti o attività.

Già gli studi di Kurt Lewin (1890-1947), grande psicologo sociale e sostenitore della scuola gestaltica, evidenziarono l’influenza reciproca tra teoria e pratica nell’apprendimento come espresso nella sua teoria del campo ed al concetto di ricerca-azione (action-learning) ma indubbiamente anche la capacità delle persone di elaborare le esperienze, i vissuti ed il proprio “sentire” inteso anche in senso emotivo non può prescindere da una certa forma d’intelligenza.

Per intelligenza umana, si può intendere in generale la capacità intellettuale degli esseri umani, caratterizzata dalla percezione, coscienza, consapevolezza di sé e dalla volontà. Attraverso la loro intelligenza, gli esseri umani possiedono le capacità cognitive per imparare, formare concetti, capire, applicare logica e ragionare, che include la capacità di riconoscere percorsi e modelli, comprendere idee, pianificare, risolvere problemi, prendere decisioni, ricordare ed usare il linguaggio per comunicare. L’intelligenza consente agli esseri umani di vivere e pensare.

All’inizio del ‘900, era diffusa in Occidente la teoria dello studioso Charles Spearman che battezzò l’intelligenza con il termine “Fattore G”, identificabile con una capacità unica, comune e misurabile in tutti gli individui.

Più tardi, lo studioso Howard Gardner, con la pubblicazione del suo libro Formae mentis, introdusse al mondo scientifico ed accademico la teoria delle intelligenze multiple, secondo la quale non esiste una facoltà comune di intelligenza, bensì diverse forme di essa, ognuna semi-indipendente dalle altre.

Con la sua opera, Gardner non mise in discussione soltanto la vecchia teoria di intelligenza, bensì anche i test standardizzati che sulla stessa si fondavano.

Nell’introduzione egli infatti sostiene:

Scrivendo questo libro, mi proposi di minare la nozione comune di intelligenza come capacità o potenziale generale che ogni essere umano possiederebbe in misura più o meno grande. Nello stesso tempo intendevo mettere in discussione l’assunto che l’intelligenza, comunque venga definita, possa essere misurata da strumenti verbali standardizzati, come test con carta e matita e fondati su risposte brevi e batterie di domande

Le parole dell’autore stanno a sottolineare come i test, sino ad allora utilizzati in Occidente (Stati Uniti e paesi sviluppati dell’Europa) per misurare e diagnosticare l’intelligenza di studenti e candidati, in occasione delle selezioni scolastiche o lavorative, andassero a considerare soltanto due tipi di intelligenza: quella linguistica e quella logico-matematica.

Accanto ad esse, Gardner ne pone altre cinque che sono le seguenti:

  • l’intelligenza spaziale;
  • l’intelligenza sociale;
  • l’intelligenza introspettiva;
  • l’intelligenza corporeo cinestetica;
  • l’intelligenza musicale.

Storicamente, il contesto socio-culturale dell’Occidente ha sempre dato un maggior peso alle intelligenze linguistico-verbale e logico-matematica, trascurando tutte le altre che hanno goduto e godono invece di ampia considerazione in culture diverse dalla nostra.

Tale contesto è entrato tuttavia in crisi con l’avvento dell’era post industriale ed informatica contemporanea, nella quale sono oramai ampiamente diffusi settori lavorativi come l’ingegneria informatica e la programmazione di software ed hardware dove i risultati migliori vengono dati proprio grazie all’uso dell’intelligenza spaziale, cui si affianca quella logica; inoltre, le capacità di collaborare in gruppo e di risolvere in un breve lasso di tempo problemi inaspettati ed improvvisi richiedono ai lavoratori un buon uso di competenze interpersonali (l’intelligenza introspettiva di cui parla Gardner) e del pensiero divergente, tipico delle menti creative.

Gli studi di Gardner hanno aperto la strada per lo studio dell’intelligenza secondo un nuovo approccio: per quanto in parte superati, ad es. dato che è poi stato riscontrato come le varie intelligenze interagiscano l’una con l’altra anziché essere totalmente indipendenti, in questa sede è di particolare interesse l’intelligenza emotiva, legata alla capacità di riconoscere, utilizzare, comprendere e gestire in modo consapevole le proprie ed altrui emozioni.

L’intelligenza emotiva è stata trattata la prima volta nel 1990 dai professori Peter Salovey e John D. Mayer nel loro articolo “Emotional Intelligence”. Definiscono l’intelligenza emotiva come “La capacità di controllare i sentimenti ed emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”. Essa è composta da tre rami principali:

  • Valutazione ed espressione delle emozioni
  • Regolamento delle emozioni
  • Utilizzo delle emozioni

Tale definizione iniziale è stata poi successivamente aggiornata in quanto appariva imprecisa e priva di un ragionamento sui sentimenti, trattando solo la percezione e la regolazione delle emozioni. È quindi stata definita come segue:

L’intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione; l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri; l’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva; l’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva e intellettuale”.

Le componenti dell’intelligenza emotiva sono tre:

  • Competenza emotiva
  • La competenza personale
  • La competenza sociale

Se abbiamo già visto la competenza personale e sociale nel capitolo precedente, la competenza emotiva è “l’insieme di abilità pratiche (skills) necessarie per l’autoefficacia (self-efficacy) dell’individuo nelle transazioni sociali che suscitano emozioni (emotion-eliciting social transactions)”. La competenza emotiva presuppone la presenza di conoscenza delle proprie e altrui emozioni e dell’abilità di comportamento intesa come la capacità di gestire e regolare le proprie emozioni per affrontare le diverse situazioni che si propongono. Attraverso questi elementi, l’individuo è in grado di intraprendere relazioni positive con gli altri e di favorire comportamenti socializzanti. Sviluppare competenze emotive significa favorire scambi comunicativi, capacità di problem-solving e stimolare il pensiero costruttivo. Lo sviluppo della competenza emotiva riguarda anche la regolazione delle proprie emozioni (strettamente legata anche al loro controllo) in cui l’individuo produce livelli ottimali e socialmente accettabili, di comportamento. È attraverso l’interazione con altri individui che si modella il comportamento emotivo ritenuto idoneo nei diversi contesti, ed è la socializzazione che stabilisce le norme entro le quali le emozioni si devono manifestare per essere considerate appropriate. Secondo Goleman la struttura della competenza emotiva è composta dalla competenza personale e la competenza sociale.

L’intelligenza emotiva è in sintesi la capacità di monitorare i propri sentimenti e quelli altrui al fine di raggiungere obiettivi. Daniel Goleman esprime le cinque caratteristiche fondamentali dell’intelligenza emotiva, che ogni uomo codifica interiormente:

  • Consapevolezza di sé, la capacità di produrre risultati riconoscendo le proprie emozioni;
  • Dominio di sé, la capacità di utilizzare i propri sentimenti per un fine;
  • Motivazione, la capacità di scoprire il vero e profondo motivo che spinge all’azione;
  • Empatia, la capacità di sentire gli altri entrando in un flusso di contatto;
  • Abilità sociale, la capacità di stare insieme agli altri cercando di capire i movimenti che accadono tra le persone.

Apprendimento emotivo

L’intelligenza, per quanto possa sembrare scontato, è quindi una prerogativa essenziale nella vita contemporanea, in quanto legata a troppi aspetti della nostra vita e, nell’era moderna già dopo la II rivoluzione industriale, a qualsiasi lavoratore è sempre più richiesto di pensare e non solo di mettere forti braccia al servizio di una qualsiasi organizzazione.

L’intelligenza è quindi necessaria non solo per svolgere un compito ma anche per relazionarsi con persone e sapersi adattare a vari contesti e così, in tale scenario, l’intelligenza emotiva è sempre più riconsiderata ed apprezzata come qualità utile e necessaria per poter raggiungere grandi risultati, in quanto spesso essi richiedono la somma di competenze possedute da persone differenti ed altamente specializzate nel proprio settore e dunque richiedono la capacità di saper lavorare in gruppo per svolgere compiti complessi che consentono però di raggiungere risultati preclusi al singolo o a pochi, soprattutto disorganizzati.

L’intelligenza emotiva è quindi essenziale per sapersi relazionare con clienti e colleghi, i quali vengono sempre più visti anche come “clienti interni” e per poter apprendere non solo con i metodi tradizionali come lo studio dei libri o le lezioni frontali ma anche e forse soprattutto dalle proprie esperienze e vissuti, dove la consapevolezza del proprio sentire emotivo e di quello delle persone coinvolte rappresenta la base per un reale apprendimento per tutta la vita (il così detto “life long learning”) che dia, come frutti, la trasformazione delle suddette esperienze nella costruzione di quegli strumenti operativi, anche solo mentali, necessari per operare e, quindi, gestire il cambiamento costante e sempre più rapido, risolvere i problemi, relazionarsi in modo efficiente e produttivo etc.

Infatti, l’apprendimento tradizionale inteso solo come processo statico (legato ad esempio a frasi dette da un relatore o alle parole scritte in un libro) diventa insufficiente perché legato solamente al piano cognitivo-astratto e non al contatto con la realtà e all’esperienza diretta. L’apprendimento va considerato come un processo globale che incorpora anche le emozioni positive o negative che proviamo anche inconsapevolmente e l’intelligenza emotiva è necessaria per elaborarle.

Attraverso le situazioni emotivamente coinvolgenti, l’apprendimento risulta non solo più piacevole ma anche più efficace e diventa quindi indispensabile considerare anche l’aspetto emozionale.

A questo punto, forse può essere bene specificare che l’aggettivo “intelligente” in questa sede non va inteso come sinonimo di “genialità” come può accadere nell’utilizzo comune, ma come presenza di capacità intellettive adeguatamente sviluppate in base ad un contesto. Inoltre, il mondo scientifico ha ormai abbandonato anche la concezione di tutta l’intelligenza intesa come pura capacità di calcolo, un tempo assai di moda anche grazie ai parallelismi tra corpo umano ed i primi computer (che, tuttavia, furono d’aiuto alla “commercializzazione scientifica” della psicologia come scienza), tant’è che una sola capacità di calcolo, per quanto elevata, rimane per così dire un dono o un talento ma di per sé non rende una persona intelligente in senso lato: gli idioti sapienti o “savant” ne sono un esempio, in quanto sono individui che presentano una o più capacità super-sviluppate in concomitanza con un certo grado di ritardo mentale. Alcuni di essi sono resi celebri anche da cinema e televisione, tramite classici come “Rainman” o, senza raggiungere tali eccessi, anche da “A beautiful mind” dedicato alla vita del matematico e premio Nobel John Forbes Nash jr., (interpretato da Russell Crowe) che, nonostante la sua grande intelligenza matematica, viene mostrato goffo ed impacciato nei rapporti sociali.

Dunque non a tutti i lavoratori è richiesto di essere dei “geni” in tal senso ma di avere quella sensibilità di comprensione e gestione dei fenomeni sufficiente ed adeguata al loro compito e ruolo nelle organizzazioni, con conseguenti aspettative: un esempio sotto gli occhi di tutti è dato dai calciatori più talentuosi che, per quanto siano di fatto pagati per prendere a calci una palla, spesso hanno quella forma di intelligenza comunemente nota come “fantasia”, che denota un elevato sviluppo di quelle capacità intellettuali necessarie per partecipare ad uno sport dove contano molto anche la strategia, il lavoro di squadra e la gestione di uno spazio (il campo di calcio).

Tornando all’intelligenza emotiva, Mayer, Di Paolo, Salovey (1990) ritengono comprovata l’esistenza di una abilità di base per cui gli individui, in modo differente, decodificano le emozioni che leggono sui volti, sui disegni o attraverso i colori. L’abilità di base è strettamente correlata ai punteggi che gli stessi individui ottengono su scale di self – reporter circa la capacità di empatia. Questo è in linea con le abilità denominate “abilità della percezione delle emozioni”.

2.1.2 Altre qualità utili nel lavoro

Oltre alle competenze e all’intelligenza, esistono altre qualità che sono solitamente apprezzate nei lavoratori, tanto nei dipendenti a diretto contatto con la clientela o il prodotto fisico da realizzare, quanto nei dirigenti o liberi professionisti.

Ottimismo o atteggiamento mentale positivo: si tratta appunto di avere una predisposizione mentale positiva verso persone, cose o situazioni presenti nella realtà vissuta dagli individui. Tale atteggiamento correla con le profezie auto-avveranti, in quanto “credere” nelle cose porta a risultati migliori quando le persone uniscono tale atteggiamento con impegno e metodo, là dove chi parte con un atteggiamento negativo rischia di auto-sabotarsi e di perdere facilmente la motivazione all’azione ed al raggiungimento degli obiettivi. Inoltre, l’ottimismo sul posto di lavoro porta i lavoratori a percepire il cambiamento come una sfida, una esperienza di apprendimento preziosa per crescere professionalmente (Stokes, 1996). Gli individui ottimisti hanno aspettative positive riguardo gli eventi futuri e mostrano maggiore sicurezza nelle proprie abilità (Judge e altri., 1999; Peterson, 2000), essi hanno una visione migliore delle opportunità lavorative e mostrano maggiore persistenza e incisività nel raggiungimento dei loro obiettivi (Carver & Scheier, 1994).

La propensione ad apprendere è fondamentale per il lifelong learning, per la gestione del cambiamento (sempre in atto) e dunque per l’adattabilità in generale (Ashford & Taylor,1990; Hall & Mirvis, 1995; London e Smither, 1999). Gli sforzi profusi dai lavoratori con alti livelli di employability sono spesso finalizzati al raggiungimento di informazioni e opportunità di sviluppo personale.
Le conseguenze associate alle proprie azioni fungono da feedback per l’individuo che sperimenta sulla propria pelle le situazioni, valutando i suoi sforzi e le sue possibilità e adattandosi via via a questi (Ashford e Taylor, 1990). L’apprendimento continuo è una determinante importante soprattutto in riferimento al successo di carriera (Hall & Mirvis, 1995; London & Smither, 1999), inoltre le attitudini, le motivazioni e le disposizioni personali rispetto all’apprendimento contribuiscono nel chiarificare l’adattabilità e l’employability in genere.

L’apertura al cambiamento è un altro aspetto importante per descrivere l’adattabilità del lavoratore, che spesso accompagna la precedente: essa favorisce le possibilità di sviluppo personale e di apprendimento continuo; l’esibizione di flessibilità permette di affrontare al meglio i cambiamenti e le situazioni di incertezza (Digman, 1990).
L’apertura al cambiamento è positivamente associata con una buona capacità di fronteggiare situazioni poco familiari o sconosciute, essa inoltre incrementa le personali abilità di affrontare una varietà di occupazioni diverse (Barrick e Mount, 1991; Costa e McCrae,1992).

Altra qualità è un locus of control equilibrato. In psicologia della personalità, il termine traducibile come “Locus del controllo o dell’attribuzione di responsabilità” si riferisce alla misura in cui gli individui credono di poter controllare gli eventi che li riguardano. Lo sviluppo del costrutto è stato sviluppato da Julian B. Rotter (1954), e da allora è diventato un aspetto degli studi di personalità. Il “locus” di una persona (dal latino “luogo”) viene concettualizzato sia come interno (la persona ritiene di poter controllare la propria vita) o esterno (la persona ritiene che le proprie decisioni e vita siano controllati da fattori ambientali che non possono essere influenzati, oppure dal caso o dal destino).
Gli individui con un alto locus of control interno ritengono che gli eventi nella loro vita derivano principalmente dalle loro azioni: per esempio, quando ricevono i risultati di una prova d’esame o di un concorso, le persone con un locus of control interno tenderebbero a lodare o biasimare se stessi per l’esito positivo o negativo della prova, là dove le persone con un locus of control esterno tenderebbe a lodare o biasimare un fattore esterno, come l’insegnante o il test, per l’esito ottenuto.
Il locus of control è una delle quattro dimensioni fondamentali della capacità di auto-valutarsi, assieme con la nevrosi, l’autoefficacia e l’autostima. Il concetto di nucleo di autovalutazione è stato esaminato da Judge, Locke e Durham (1997), dimostrando di avere la capacità di prevedere i diversi risultati riguardanti il lavoro svolto, in particolare la soddisfazione sul lavoro e le prestazioni di lavoro (performance).
È chiaro che è importante avere un locus of control equilibrato, con la capacità di riconoscere sia le cause interne che quelle esterne per i propri successi o fallimenti, dato che sia un eccesso nel locus of control interno anche in caso di fallimenti dovuti ad imprevisti, sia un eccesso nel locus of control esterno anche in caso di successi dovuti in realtà alle proprie competenze (e non al caso o alla fortuna) sono entrambi di ostacolo alla crescita personale e professionale dei lavoratori e possono influire negativamente sulla percezione di sé e sulla motivazione all’azione, in quanto una persona potrebbe sentirsi responsabile di fallimenti per i quali in realtà non lo è, oppure percepire ogni proprio successo come dovuto al caso e quindi avere disistima di sé ed una scarsa percezione di auto-efficacia. In generale, tuttavia, un locus of control interno è preferibile in quanto una persona tenderà a sentirsi responsabile per i propri risultati e ciò rappresenta la base ideale per la crescita ed il cambiamento personali. (Rotter, 1966; Spector, 1988)
Per quanto detto, gli individui con locus of control interno sono più adattabili ed “employable” perché risultano maggiormente flessibili e protattivi a fronte di transizioni legate alla vita lavorativa e perché sono capaci di pianificare meglio le situazioni di incertezza. Essi inoltre risultano più resistenti ai sacrifici e agli sforzi, questo li rende più forti di fronte alle difficoltà della vita lavorativa (Gould 1979).

L’ultimo aspetto trattato è quello dell’autoefficacia (self efficacy), considerata centrale dell’adattabilità. Essa rappresenta l’insieme di percezioni sulla propria abilità individuale e fa riferimento principalmente alla convinzione di essere capaci di raggiungere determinati obiettivi. Coloro che mostrano alti livelli di self efficacy hanno una maggiore probabilità di raggiungere i propri obiettivi, di fronteggiare le sfide e le difficoltà della vita in modo migliore (Judge, Erez, e Bono, 1998, p. 170).
Ricerche in merito alla percezione di controllo mostrano che il desiderio di ottenere un senso di controllo guida gli individui verso una riduzione delle loro incertezze e ad attuare migliori strategie di fronteggiamento dei problemi a fronte di cambiamenti organizzativi (Fugate, Kinicki, e Scheck, 2002).
Possedere alti livelli di self efficacy favorisce l’adattabilità personale al lavoro; diversi studi hanno confermato che alti livelli di self efficacy promuovono alta job satisfaction e job performance (Judge e Bono, 2001).
Così come gli altri fattori presentati riguardanti l’adattività, anche la self efficacy promuove l’identificazione e la realizzazione di opportunità di carriera. L’individuo è maggiormente employable (e adattabile) se è capace di plasmare le sue caratteristiche personali in funzione alle domande di sviluppo ed evoluzione dell’organizzazione (Chan, 2000).

L’adattamento ai cambiamenti nella domanda di lavoro costituisce un processo attivo per il lavoratore, colui che mostra migliori livelli di attività anche per quanto riguarda gli sforzi sostenuti, possiede un migliore livello di adattamento (Ashford e Taylor 1990).

Per mantenere un alto livello di adattabilità i lavoratori devono mantenere tre condizioni :

  • alto livello di feedback sul proprio lavoro e gli sviluppi del lavoro
  • mantenere alti livelli interni di adattabilità come ad es. l’ottimismo e la self efficacy,
  • Mantenere alti livelli di mobilità (Fugate e altri 2004).

Un ulteriore elemento viene ritrovato nella teoria sulla modalità di regolamentazione, che descrive come le persone affrontino le situazioni per raggiungere l’obiettivo. Questa teoria fa parte della ricerca di E. Tory Higgins nelle teorie sulla motivazione e del conseguimento degli obiettivi. Le persone possono essere divise in “valutatori” (assessor) o “locomotori” (locomotors) in base al loro atteggiamento dominate per il raggiungimento di un obiettivo. Quando le persone si auto-regolano, decidono quello che vogliono e si attivano per capire che cosa devono fare per ottenerlo; quindi lo fanno. Le persone che sono orientati verso la modalità di locomozione si concentrano su ciò che va fatto per ottenere i risultati e lo mettono in pratica; al contrario, coloro che sono più orientati alla valutazione, metteranno al confronto diversi possibili traguardi ed analizzeranno diverse opzioni.

Uno studio svolto da Pierro, Giacomantonio, Pica, Kruglanski, e Higgins (2011) ha preso in esame come la locomozione e la valutazione influiscano sulla procrastinazione e su come le persone gestiscano il proprio tempo. Lo studio ha evidenziato come la valutazione sia positivamente correlata alla procrastinazione, mentre locomozione è correlata negativamente. Per raggiungere un certo obiettivo, i valutatori tendono ad analizzare e confrontare una grande quantità di lavoro, mentre i locomotori sono generalmente più veloci a prendere decisioni e ad agire. Infatti, lo studio ha sottolineato anche che l’orientamento alla valutazione porta a valutare ed analizzare in dettaglio ogni elemento presente, ritardando così la presa di decisione ma portando tuttavia a valutazioni più precise sebbene al costo di un tempo più lungo.

Queste due modalità di auto-gestione riflettono gli stili motivazionali per il conseguimento degli obiettivi (goal-pursuit). La motivazione dietro la modalità di valutazione è la precisione e per la modalità di locomozione è l’azione.

In generale, sia la capacità di valutare che di agire sono importanti per le aziende, tuttavia un’eccesiva tendenza alla valutazione può essere nemica dell’efficienza e della produttività, dato che può portare all’immobilismo. Per contro, la capacità dei locomotori di agire è spesso correlata ad una forte capacità di auto-attivarsi e quindi ad una forte presa di iniziativa, assai utile nelle dinamiche di crescita professionale, di delega e di produttività delle imprese quando associata ad un’adeguata formazione, commitment (senso di fedeltà ed amore per l’organizzazione) e sviluppo del senso di responsabilità del singolo: anche se un’eccessiva intraprendenza può comportare ugualmente alcuni rischi, quando tale modalità si traduce in comportamento nella vita quotidiana, è l’intera organizzazione che può trarne benefici in quanto i lavoratori ne aumentano in indipendenza ed i responsabili possono affidarsi di più ai propri collaboratori, investendo meno tempo nel micro-management che diventa invece necessario nei contesti caratterizzati da lavoratori con scarsa capacità di auto-attivarsi e che vanno costantemente istruiti, indirizzati e motivati.

Contesto sociale contemporaneo, flessibilità e precariato.

Come già illustrato nella precedente ricerca, l’Italia come il resto del mondo sta attraversando un lungo e tormentato periodo di crisi economica e culturale, caratterizzato da povertà economica ed un cambiamento per certi versi molto lento.

Già dai tempi del declino del fordismo e con l’avvento della personalizzazione dei prodotti che ha sostituito la produzione di massa, le imprese hanno avuto un sempre maggiore bisogno di flessibilità per poter sopravvivere, prosperare ed adattarsi al nuovo mercato ed alle sue richieste e almeno parte di questa flessibilità è stata trovata in nuove forme contrattuali per ingaggiare lavoratori in base ai bisogni delle imprese.

Da qui è nato il così detto “lavoro flessibile”, del quale tuttavia non esiste ancora una definizione univoca (Gallagher and McLean Parks 2001; Kalleberg 2000), considerato il fatto che ogni Paese definisce il lavoro atipico o temporaneo a partire da caratteristiche peculiari facenti capo a contesti socio-culturali e legislativi profondamente differenti.

In Canada e negli Stati Uniti, ad esempio, analizzando la letteratura, è possibile constatare come il lavoratore flessibile sia definito con l’accezione di “contingente”. Per quanto riguarda la situazione degli USA c’è da fare una precisazione poiché il self-employment e i contratti indipendenti non sono considerabili lavori temporanei (Connelly e Gallagher 2006).

Ricercatori europei e australiani, invece, hanno escluso il self-employed nella disquisizione sulla flessibilità poiché tale modalità di lavoro è regolata in modo differente dalla legge e mostra differenze significative da Paese a Paese. Nei lavori di ricerca in Europa, la terminologia di riferimento per i lavoratori flessibili è quella di ‘temporanei’ o di ‘non permanenti’ (Connelly e Gallagher 2004; De Cuyper e altri. 2005a); in Australia e Nuova Zelanda basta dire ‘lavoratore’ per capire che si sta parlando di un temporaneo (Burgess e altri 2005; Burgess e Strachan 1999; Campbell 2004; Campbell e Burgess 2001a,b; Junor 2004).

In termini numerici, a livello internazionale, il lavoro temporaneo si assesta attorno al 15% in Canada, al 4% in USA ed Europa.

Per quanto riguarda la situazione europea i valori sono molto variabili e vanno dal 4% del Lussemburgo a più del 35% della Spagna (Campbell e Burgess 2001b; Wooden 2004).

Per definire il lavoro temporaneo servono misure internazionali e un modello parametrico condiviso altrimenti risulta molto arduo ottenere dati che risultino credibili e generalizzabili a tutte le nazioni prese in esame (De Cuyper e altri 2005a).

Il fenomeno del lavoro flessibile è complesso ed eterogeneo ed è strettamente dipendente dalle norme legislative di ogni singolo Stato e dalla regolamentazione del lavoro dei territori nazionali, da questi dipende spesso l’atteggiamento delle organizzazioni e la strutturazione dei contratti di lavoro (Kluytmans; Ott 1999).

Il lavoro temporaneo in Europa tende molto a privilegiare la posizione del lavoratore, poiché pone alla base del rapporto di lavoro dei diritti acquisiti per temporanei (Vosko 1998; Zeytinoglu e Muteshi 2000) tuttavia, nel resto del mondo, la situazione non è esattamente la medesima.

In Australia ad esempio, la situazione è profondamente diversa poiché i diritti di base di un lavoratore assunto a tempo determinato escludono il pagamento delle ferie, l’avviso di licenziamento, la possibilità di congedo per ragioni di salute e il pagamento dei giorni festivi (Campbell 1998, 2004). Sempre in Australia mancano leggi ad inquadramento peculiare e specifico a tutela del benessere del lavoratore in genere in termini di benefits, sia che si parli di fissi che di lavoratori flessibili (Burgess e Strachan 1999; Campbell 2004; Campbell and Burgess 2001a; Wooden 2001).

In USA si è optato per la non regolamentazione dei benefits, la presenza di benefici accessori a quelli lavorativi è regolamentata dalla discrezionalità di scelta del datore di lavoro, seguendo uno spirito fortemente liberale (Connelly e Gallagher 2006).

Risulta evidente come ci siano profonde differenze riguardanti il lavoro temporaneo in ambito internazionale.

La complessità del fenomeno vede ad esempio in Italia una moltitudine di contratti di lavoro che trascendono dal tempo indeterminato: si fa riferimento ai contratti a tempo determinato, a progetto o di collaborazione, di quelli formativi/stage, di tirocinio o semplicemente dei contratti a chiamata (Sarchielli 2003), una selva di accezioni dalle quale è spesso difficile vincolarsi o ancor peggio ancorarsi concettualmente, anche alla luce dei continui mutamenti legislativi sul tema.

La precedente ricerca condotta da Mondo, Loy et all. aveva chiaramente mostrato come il lavoro atipico, forse ad eccezione dei lavori part-time verticale od orizzontale ma a tempo indeterminato, in realtà non sia realmente flessibile ma sia semplicemente precario, in quanto i lavoratori così coinvolti hanno enormi difficoltà (per non dire che sono nell’impossibilità totale) di costruirsi un percorso di vita che consenta loro una vita autonoma ed una famiglia, dato che l’intermittenza del lavoro impedisce di affrontare spese fisse come l’affitto di una casa, o quelle necessarie per crescere un figlio, che solo il lavoro a tempo indeterminato consente.

Molte imprese, inoltre, continuano ad affidarsi alle forme atipiche di lavoro per vari motivi, che approfondiremo meglio nelle conclusioni di questo lavoro, tra i quali rimane in testa il vantaggio economico derivante dalle forme atipiche rispetto a quelle tradizionali di lavoro. Tale tendenza crea delle nuove dinamiche relazionali di potere, con una sperequazione nettamente a favore del datore di lavoro che tuttavia, soprattutto nella piccola-media impresa, non è realmente in grado di assumere a tempo indeterminato dei dipendenti a causa dei costi eccessivi diretti ed indiretti che la legge italiana impone e della tassazione sempre maggiore, a discapito della crisi.

In un contesto in cui la stabilità è di fatto diventato un lusso per pochi anziché un diritto di tutti, in cui i posti a tempo indeterminato sono sempre meno nel settore pubblico o privato (i concorsi pubblici ormai sono per 2-3 persone alla volta per i quali si iscrivono a migliaia, anziché per svariate centinaia di persone come accadeva prima) ed in cui la tendenza degli italiani è quella di “inventarsi” un lavoro, oppure quella di passare da un lavoro atipico ad un altro oppure ancora quella di emigrare per l’assenza di opportunità, è essenziale comprendere il concetto di “occupabilità” e come e quando essa avviene.

2.3 Employability: occupabilità

Nota: per questo capitolo, devo ringraziare di cuore il collega dott. Pierluigi Lido per i suoi lavori già svolti su questo tema che mi hanno risparmiato una gran fatica di ricerca in letteratura.

L’occupabilità si riferisce alla capacità di una persona di ottenere e mantenere un posto di lavoro, ovvero di restare “occupata” partecipando al processo sociale in cui viene ingaggiata o terzi ne usufruiscono dei servizi in cambio di denaro (Hillage e Pollard, 1998).

Per gli individui, l’occupabilità dipende da un insieme di conoscenze, competenze e abilità (KSA = knowledge, skills, abilities) che possiedono ed il loro modo di presentare tali qualità ai datori di lavoro. Come tale, l’occupabilità è influenzata sia dal lato dell’offerta e dal lato della domanda: fattori che sono spesso al di fuori del controllo di un individuo.

In psicologia sociale, l’employability è un costrutto multidimensionale, che si inserisce in quella parte della metodologia di ricerca collocato più precisamente nel versante della psicologia positiva. La psicologia positiva si occupa dello studio degli aspetti che possono incrementare il benessere della persona, sempre più minacciato dall’instabilità del lavoro, ad oggi incerto e insicuro.

Il costrutto dell’employability si compone di variabili utili al lavoratore moderno, un soggetto immerso in nuove condizioni di occupazione; un individuo che ha bisogno di nuovi strumenti per muoversi meglio all’interno di un contesto lavorativo, oggi profondamente mutato.

Gli studi sull’employability nascono principalmente in rapporto ai mutamenti del mercato del lavoro e alla luce della progressiva modificazione delle domande del mercato, dei contratti e della frammentazione delle carriere lavorative. Le attuali carriere di lavoro sono profondamente cambiate se le rapportiamo a quelle mediamente vissute da un lavoratore negli anni ‘80; la larga diffusione del lavoro flessibile ha stravolto le dinamiche lavorative così come erano concepite in maniera classica.

È stato progressivamente messo in discussione il concetto di “job security” inteso non tanto come sicurezza fisica ma soprattutto in termini di stabilità, soprattutto per i lavoratori temporanei (Kluytmans e Ott 1999). In questo contesto l’employability si inserisce come il nuovo set di abilità del lavoratore, il quale ha la possibilità di “difendersi” dalla mutevolezza del lavoro a partire dalle sue stesse capacità e risorse personali.

Per fronteggiare ai turbolenti sviluppi del mercato del lavoro e ai sempre più frequenti cambiamenti di carriera, ai lavoratori è richiesto di gestire il loro personale livello di cambiamento nel contesto di lavoro, questa abilità della persona, unita alla disponibilità ad adattarsi, è essenziale per il successo nella carriera (Hall, 2002; Pulakos, Arad, Donovan, e Plamondon, 2000).

L’employability incarna le caratteristiche individuali e sociali utili al lavoratore al fine di alleviare i problemi di adattamento e gli aspetti negativi legati al rapporto all’incertezza del mondo del lavoro.

Per diverso tempo con il termine employability si è andata ad indicare una miriade di aspetti diversi in letteratura, dalle policy (Kossek, Huber, e Lemer, 2003) al counseling vocazionale indirizzato a individui disabili, (Bricuit e Bentley, 2000) fino all’utilizzo del termine per descrivere aspetti di carattere economico.

L’employability ha suscitato grossa attenzione in letteratura di ricerca soprattutto negli ultimi anni, considerato il fatto che tale argomento è stato finora studiato sotto punti di vista concettualmente diversi.

Inizialmente l’employability era definita come la nuova serie di abilità legate alla capacità di trovare occupazioni (Gaspersz, Ott 1996) all’interno dell’attuale mercato del lavoro, flessibile e in continuo mutamento, responsabile del progressivo spezzettamento della carriere: sin dagli anni ‘80 tale capacità era intesa come un’abilità legata alla flessibilità del lavoro a tal punto che la parola “employability” veniva spesso sostituita con quella di flessibilità funzionale.

Per diverso tempo si è pensato che l’employability facesse capo alla capacità di trovare lavoro, tale abilità è stata collegata quasi automaticamente alla condizione di occupato, seguendo l’idea che coloro che si trovano all’interno del mondo del lavoro siano (automaticamente) “employable” rispetto agli inoccupati (McArdle 2007) . Sebbene il legame tautologico tra employability ed effettiva occupazione è fin troppo invitante, esso rischia di diventare una mera ripetizione di sinonimi e di ridursi ad un puro bias frutto di euristiche. Certamente, un lavoratore maggiormente “employable” ha maggiori probabilità di ottenere un’occupazione rispetto a chi presenta scarse employ skills (competenze spendibili nel mondo del lavoro; Fugate et al. 2004).

2.3.1 – le competenze chiave del lavoratore “employable” secondo Ott.

Se diversi autori hanno definito l’employability in maniera unidimensionale considerandola esclusivamente in rapporto all’effettiva occupazione e valutandola alla luce del raggiungimento del posto di lavoro, diventa di particolare interesse il contributo di Ott (“Management of Employability in The Netherlands”, 1999) il quale ha indagato in che modo quale fosse il set di abilità realmente richiesto e quanto fosse promuovibile da parte delle organizzazioni, in quanto l’idea di base dei di Ott et all, ricercatori, era che alti livelli di employability favorissero la job security per i lavoratori con contratto atipico, ad esempio a tempo determinato, o temporanei (Kanter 1989).

Per Ott (1999), le competenze chiave del lavoratore “employable” sono:

  • Abilità di know-how: fa riferimento alla capacità di problem solving se si presentano improvvisi cambiamenti o problemi nuovi
  • Disponibilità a spostarsi
  • Conoscenza mercato del lavoro: è un’abilità utile sia per trovare posti di lavoro per il lavoratore in prima persona, sia per implementare lo scambio di informazioni tra le aziende attraverso la promozione del network.

Il contributo di Ott propone elementi come la mobilità, le capacità di “learning on the job” (imparare sul posto di lavoro) ed il monitoraggio personale della carriera come elementi caratterizzanti l’employability. Tutto sommato tali abilità sussistevano già alla luce di obiettivi ben precisi, vale a dire l’ottenimento di posti di lavoro che a sua volta serviva al lavoratore per ottenere una maggiore sicurezza del posto di lavoro (Kanter 1989).

La problematicità della visione di alcuni autori (Ott 1999) emerge nel momento in cui gli occupati vengono considerati automaticamente “employables” (occupabili), che è un concetto diverso.

Fugate e collaboratori (2004) presentano infatti l’employability come un costrutto psico-sociale centrato sull’individuo e scollegato dalla necessità di avere un impiego: ciò significa che un individuo può essere employable senza la necessaria condizione di avere un posto di lavoro. Il rafforzamento delle competenze dei soggetti employable è utile alla promozione del loro “re-employment” (ri-occupazione), a dispetto delle difficoltà economiche e sociali che comportano l’eventuale perdita del lavoro (McArdle 2007).

Abbiamo quindi delle differenze significative tra:

  • Employabilitity: termine che indica quell’insieme di abilità, conoscenze, competenze e caratteristiche personali riguardanti la capacità individuale di farsi ingaggiare o assumere;
  • Employable: termine che indica se una persona è potenzialmente assumibile;
  • Employed: termine che indica, semplicemente, la condizione di persona assunta.

Negli ultimi anni di ricerca, il costrutto di employability è stato sempre più considerato alla luce di una visione di insieme che puntasse sul concetto di modello multidimensionale e di carattere psicosociale, fino ad arrivare alla pubblicazione di un modello disposizionale capace di quantificare il costrutto.

Si fa riferimento nello specifico ai contributi di Fugate e altri del 2004 e a quelli di Fugate e Kinicki del 2008.

2.3.2 – Employability come costrutto psicosociale a tre dimensioni

Diversi studi precedenti al modello di Fugate e collaboratori (2004) hanno descritto l’employability a partire da svariate caratteristiche. Alcuni autori hanno sottolineato diversi aspetti dell’employability, alcuni di questi di lì a poco avrebbero preso le forme e i contorni del modello psicosociale di Fugate e collaboratori.

Ci si riferisce nello specifico a tutti quegli studi sul costrutto che sono andati ad indagare dimensioni come la proattività, (Crant, 2000) la personalità proattiva (Bateman e Crant 1993). il livello di iniziativa personale (Frese e Fay, 2001), l’energia, la socializzazione proattiva (Saks e Ashforth, 1997) ecc.

La proattività migliora le performance (Crant, 1995) e promuove la possibilità di raggiungere gli obiettivi di carriera (Seibert, Crant, e Kraimer, 1999) riducendo i livelli di incertezza e ansia (Saks & Ashforth, 1996).

Wanberg and Kammeyer-Mueller (2000) confermano come la socializzazione proattiva incrementi la job satisfaction e riduca l’intenzione di cambiare lavoro.

L’espressione pratica del costrutto employability è concentrata nella sigla KSAO che corrisponde a:

  • acquisizione di conoscenze (k);
  • skills (s);
  • abilità (a);
  • unite al altri tipi di conoscenze (o) .

Le parole chiave che hanno caratterizzano la natura dell’employability sono state la proattività (Crant, 2001) e il livello di changeable (Chan, 2000), entrambe preziose per venire incontro ai continui sviluppi del mondo lavorativo.

Alla luce di tutte queste considerazioni Fugate, Kinicki e Ashforth, nel 2004, pensarono che ci fossero le basi necessarie per lavorare sull’employability e di collegare molte di queste caratteristiche a un tipo di costrutto che fosse psico-sociale e multidimensionale.

Gli stessi autori proposero che concepire l’employabilitiy come costrutto centrato sulla persona avrebbe facilitato la comprensione delle modalità in cui i lavoratori possono promuovere migliori livelli di adattamento, a fronte della miriade di cambiamenti necessari nell’odierno mercato del lavoro.

Il loro contributo è attualmente un punto di riferimento nel Journal of Vocational Behavior; l’employability è definita come costrutto psicosociale comprendente tre dimensioni:

  • capacità di adattamento;
  • identità di carriera;
  • capitale umano e sociale.

a) La capacità di adattamento

La capacità di adattamento o adattabilità è il primo aspetto proposto da Fugate e collaboratori nel 2004 per descrivere in maniera multidimensionale il costrutto dell’employability.

L’adattabilità si riferisce al benessere e alla capacità di cambiare atteggiamenti e condotte anche alla luce dell’insicurezza delle carriere e della continua modificazione delle domande lavorative (Fugate et al., 2004).

Il concetto di adattabilità è molto vicino a quello di flessibilità e rappresenta una preziosa risorsa per il lavoratore odierno, immerso in un contesto incerto e in continuo mutamento (Hall 2002).

Il lavoratore che ha un alto livello di adattabilità presenta maggiore tolleranza di fronte all’ambiguità e all’incertezza del lavoro e mostra livelli inferiori di ansia di fronte ai cambiamenti organizzativi (O’Connell; in “Press”).

Collegato al costrutto dell’adattabilità c’è la componente della proattività. In accordo con la visione di Crant (1993) i tipi di personalità proattiva hanno la propensione ad affrontare al meglio i cambiamenti e gli sviluppi che riguardano il contesto lavorativo e hanno una migliore gestione delle situazioni di difficoltà e di quelle che implicano restrizioni e impedimenti.

Gli individui dotati di personalità proattiva hanno migliori capacità di identificazione e di sviluppo delle proprie opportunità anche quando si parla di ricercare le informazioni necessarie al proprio sviluppo. Essi mostrano maggiore controllo sulle situazioni, perseveranza, capacità di self-direction e migliore abilità di fronteggiare le situazioni di difficoltà. (Bateman & Crant, 1993; Crant, 2000; Seibert et al., 1999; Seibert, Kraimer, & Crant, 2001; Thompson, 2005).

Sono rintracciabili cinque differenze individuali che descrivono dettagliatamente l’adattabilità (Fugate 2004), che sono quelle appunto già analizzate nei capitoli precedenti, assieme alle competenze.

  • l’ottimismo,
  • la propensione ad apprendere,
  • l’apertura al cambiamento,
  • il locus of control interno
  • una buona self efficacy.

b) L’identità di carriera

Allargando i postulati di Ashford e Taylor, Fugate introduce l’identità di carriera all’interno del costrutto employability.

L’identità di carriera è presa in considerazione per descrivere il modo in cui l’individuo si sviluppa professionalmente a fronte delle sue ambizioni e motivazioni; parafrasando Fugate l’identità di carriera costituisce “ciò che gli individui sono” e “chi vorrebbero essere” (Ashforth & Fugate, 2001). Per le persone maggiormente employable, avere una forte identità di carriera provvede a dare direzione ed energia al proprio percorso. L’identità di carriera rappresenta il modo in cui gli individui si definiscono e si vedono nel loro contesto lavorativo e può essere inteso come una sorta di “bussola cognitiva” usata per navigare all’interno delle opportunità di carriera (Fugate et al. 2004). È in questo senso che l’identità di carriera può essere intesa come capacità di orientamento e progettualità a fronte della complessità delle opportunità lavorative; essa riflette abilità di ‘Knowing-why’ e si riferisce alle motivazioni che spingono a intraprendere un certo tipo di lavoro (il perché), ai significati che si danno ad esso e ai valori individuali che entrano in gioco.

Considerando che il locus of control esterno non spiega in maniera significativa le traiettorie di carriera, è preferibile riferirsi a questa come all’uso di una “bussola di carriera interna” che è importante per la definizione della direzionalità del proprio percorso e specialmente per la ricerca individuale di opportunità che vadano anche al di fuori dei confini dell’organizzazione.

Hall, Briscoe, e Kram (1997) suggeriscono che , in un contesto di sviluppo così frenetico come quello attuale resta importante tenere ben separata la propria identità da quella dell’organizzazione e sottolineano come sia importante avere una visione della propria carriera allargata e non dipendente dall’organizzazione, una visione individuale che tenga conto delle proprie motivazioni e dei propri interessi. Nei periodi di disoccupazione l’identità di carriera costituisce un aspetto molto importante che può garantire all’individuo di riuscire a porsi determinati obiettivi e può portarlo a prendere delle decisioni adeguate per quanto riguarda le proprie opportunità. L’identità di carriera è legata alla progettualità dell’individuo e alla sua capacità di conoscere sempre la propria identità lavorativa.

c) Capitale umano e sociale

Capitale umano e sociale costituiscono la terza dimensione del costrutto employability. Se si parla di capitale sociale ci si riferisce alla possibilità di usufruire (da parte dell’individuo) di reti sociali in grado di favorire le possibilità di occupazione; il capitale sociale contribuisce ad incrementare la quantità di informazioni relative alle opportunità di carriera (Adler e Kwon, 2002) e a incrementare il supporto sociale nei confronti dell’individuo (Seibert, Kraimer, e Liden,2001). In tal modo coloro che hanno un livello di network migliore posseggono maggiori possibilità di trovare un’occupazione e di sviluppare i propri obiettivi di carriera. Le reti sociali a disposizione del lavoratore sono importanti e possono fungere da supporto sociale per l’individuo, esse servono a migliorare le condizioni stressanti causate dal lavoro e dai periodi di inoccupazione.

Nei contesti di lavoro, il livello di informazione influisce positivamente sulle opportunità di carriera (Burt, 1997a, 1997b; Portes, 1998) e sul raggiungimento delle proprie aspirazioni occupazionali. La grandezza del network (Seibert e altri, 2001) e la sua incisività (Higgins e Kram, 2001) sono due importanti caratteristiche che determinano il potenziale dell’informazione e la determinante di successo dei cosidetti “legami deboli” (La Rosa 2002).

Come concettualizzato dal sociologo Fukuyama, i legami deboli rappresentano l’insieme di conoscenze e relazioni interpersonali che permettono all’individuo di accedere al mondo del lavoro attraverso canali informali. Dalle formulazioni di Fukuyama si evince come i legami deboli abbiano effettivamente una forte influenza nell’accesso al mondo del lavoro, ciò penalizza di certo i canali formali di ricerca dell’occupazione, come ad es. i centri per l’impiego, i bandi pubblici di concorso e tutte le strutture statali (e non) predisposte al matching candidato-lavoro. Alcuni autori sottolinearono come i top manager trovavano per di più lavoro attraverso reti di accesso informali e che il capitale sociale era importante per il raggiungimento del lavoro.

Insieme al capitale sociale, quello umano ha un ruolo importante nella descrizione del costrutto pisco-sociale dell’employability. Esso si riferisce all’influenza che certe variabili hanno sull’avanzamento di carriera, tra queste l’età e il livello di scolarizzazione (Wanberg, Watt, e Rumsey, 1996), le esperienze di lavoro e formative (Becker, 1975), le performance ottenute nelle organizzazioni (Forbes e Piercy, 1991), l’intelligenza emotiva (Wong e Law, 2002), le abilità cognitive (Tharenou, 1997).

Tra le variabili appena elencate, il livello di scolarizzazione e l’esperienza lavorativa sarebbero i predittori più forti per l’avanzamento di carriera (Judge, Cable, Boudreau, e Bretz, 1995; Kirchmeyer,1998; Tharenou, Latimer, e Conroy, 1994).

Il capitale umano è legato alle abilità di “know-how”, competenze che si riferiscono a conoscenze collegate con la carriera e ad abilità che si costruiscono tramite apprendimento continuo e sviluppo nelle attività professionali.

Considerati i continui cambiamenti dell’attuale mondo del lavoro, l’esperienza costituisce un aspetto molto importate per il lavoratore il quale deve esser capace di sviluppare la portabilità di tali abilità (Anderson, 2001) attraverso l’edificazione di un proprio portfolio di abilità e conoscenze, figlio del passaggio da un organizzazione all’altra. Il capitale umano in tal senso è legato allo sviluppo di committment da parte del lavoratore al fine di promuovere un apprendimento continuo al lavoro (Becker, 1975; London & Smither, 1999), tali condizioni non fanno altro che promuovere lo sviluppo e l’innalzamento dell’employability.

Investendo sull’apprendimento “on the job” gli individui hanno la possibilità di sviluppare il loro capitale umano, edificando così il loro livello di employability.

2.3.4 – Disoccupazione, ricerca del lavoro e re-employment: evidenze empiriche e temi di discussione ancora aperti

L’individuo ritenuto employable (Fugate et al 2004) segue due condizioni:

  1. è più abile nella ricerca del posto
  2. è più abile a trovare un nuovo posto di lavoro

I postulati di Fugate sono di natura teorica (nel 2004) e non erano stati studiati dal punto di vista empirico. Lo studio che prenderemo in analisi offre maggiori informazioni sull’employability, utili per comprendere meglio cosa sappiamo sul costrutto e cosa sarebbe opportuno approfondire.

McArdle e collaboratori nel 2007 hanno pubblicato lo studio intitolato “Employability during unemployment: Adaptability, career identity and human and social capital” che si rifà al costrutto psico-sociale multidimensionale di Fugate del 2004.

Ci si occuperà di seguito dei risultati dello studio relativi al lavoro di Mc Hardy per sottolineare come questo contributo confermi la validità del costrutto di Fugate e come inoltre aggiunga delle informazioni di rilievo in merito al rapporto che intercorre tra employabilty e re-employment.

Mc Hardy e collaboratori hanno preso in considerazione il modello di Fugate suddividendo la dimensione dell’adattabilità …

nelle variabili personalità proattiva e apertuta mentale, la dimensione identità di carriera
nelle variabili self efficacy e identity awareness, le dimensioni capitale sociale ed umano
rispettivamente nelle variabili networking e supporto sociale; il capitale umano nella variabile education.
Le sette dimensioni totali appena elencate sono state utilizzate per studiare l’employabilitiy (inteso come costrutto multidimensionale) in rapporto con:

  • stima di sé durante la disoccupazione,
  • ricerca di un posto di lavoro durante la disoccupazione,
  • riassunzione (follow up di 6 mesi).

La prima parte dello studio ha confermato come le variabili Proactive personality, boundaryless mindset, career self-efficacy, identity awareness, social support, job search, and networking erano correlate positivamente tra loro, ciò non fa altro che confermare la validità del costrutto employability di Fugate.

La seconda parte dello studio di Mc Hardy (studio longitudinale successivo di 6 mesi) ha evidenziato come le dimensioni relative al networking, ricerca del lavoro (job reaserach), stima di sé (self esteem) e livello di scolarizzazione (education) non abbiano raggiunto il livello di significatività, da ciò si deduce inoltre che la ricerca del lavoro e la stima di sé non possano essere prese in considerazione in riferimento al livello di rioccupabilità. Stesso discorso vale per la stima di sé nel momento in cui viene messa in relazione al re-employment.

Analisi della regressione standardizzate mostrano come boundaryless mindset (apertura mentale) contribuisce a spiegare l’employability (0.84), seguita dalla personalità proattiva (0.77), la self-efficacy di carriera (0.60), l’identity awareness (0.52) e il supporto sociale (0.31) . In totale solo il 16% della varianza relativa all’effettivo reimpiego è spiegata dal costrutto employability, troppo poco per legare il costrutto al reimpiego.

Per quanto riguarda il networking può risultare strano il fatto che la e di contatti dell’individuo, unita alla possibilità di incrementare l’approvvigionamento di informazioni relative alle possibilità di occupazione (Adler e Kwon, 2002), non raggiunga il livello di significatività, così come risulta per la dimensione education. Hardy stesso ammette nel suo articolo che il contatto con una rete sociale vicina alla persona si mostra più forte durante i primi mesi di inoccupazione e che i benefici di questo capitale sociale possono protrarsi anche più di sei mesi dopo il periodo dello studio longitudinale.

L’autore sottolinea come il rapporto coi parenti e gli amici si riduca man mano col protrarsi della disoccupazione nel tempo.

Il continuo stato di disoccupazione allontana la possibilità per l’individuo di attingere dal proprio network di contatti sociali, che progressivamente si riduce e si dimentica della persona non generando supporto sociale, causa anche la mancanza di reciprocità.

In questo senso, risulta necessaria una concentrazione maggiore che puntualizzi il concetto di network e che indaghi le carriere come un processo a fasi che per forza di cose subisce diverse modificazioni nel tempo.

Per quanto riguarda il capitale umano inteso come quell’insieme di caratteristiche individuali e peculiari del soggetto si è registrata una mancata significatività nei confronti dell’employability.

2.3.5 – Misura disposizionale dell’employability (DME)

Le dimensioni del DME sono cinque:

1 – Apertura al cambiamento

È un aspetto fondamentale dell’employability disposizionale poiché le nuove esperienze supportano il continuo apprendimento promuovendo l’identificazione e la realizzazione di obiettivi in condizioni di incertezza. Gli individui con maggiore apertura sono più ricettivi di fronte all’innnovazione tecnologica, la loro apertura li rende maggiormente adattabili alle domande dell’odierno mercato del lavoro risultando così maggiormente employable.

2 – Work and career resilience (Resistenza)

Coloro i quali hanno una migliore self-evalutation, attribuiscono valore ai propri successi a partire dalla valutazione delle proprie abilità e degli sforzi, mentre tendono a sottovalutare i propri insuccessi non attribuendoli a responsabilità personali. Gli individui resilienti sono spesso più ottimisti, hanno maggiori capacità di affrontare gli eventi futuri e i cambiamenti affettivi. Essi vivono i cambiamenti organizzativi come nuove possibilità di apprendere e perseguono obiettivi e risultati (Carver & Scheier, 1994).

3 – Work and career proactivity (pro-attività)

Tale dimensione è legata alla proattività dell’individuo intesa come la capacità di essere maggiormente predisposti all’attivazione nei confronti del lavoro in genere, gli individui proattivi hanno maggiori possibilità di accedere alle informazioni relative al loro sviluppo di carriera. La Work and Career Proactivity è molto simile al coping proattivo.

4 – Career motivation: (motivazione)

Questa dimensione è legata all’apprendimento continuo da parte dell’individuo. La career motivation si fonda su due aspetti importanti : A) il controllo motivazionale (Kanfer e Heggestad, 1997) B) l’apprendimento e l’orientamento rispetto agli obiettivi (Dweck e Leggett, 1988).

  • A) un alto controllo motivazionale aumenta il livello di motivazione stessa, tutela dai periodi di frustrazione e predispone il soggetto a sopportare quegli sforzi finalizzati al cambiamento.
  • B) il learning orientato in prospetiva futura aiuta il lavoratore nella progettazione dei suoi obiettivi, nell’apprendimento e nelle opportuntà di training personale (Cron, Slocum, Vandewalle, e Fu, 2005).

5 – Identità di carriera:

Dal 2004 Fugate e Kinicki inserirono la work identity come una delle tre dimensioni descrittive del costrutto employability. Avere un buon orientamento personale rispetto alla propria identità di carriera indirizza l’individuo verso obiettivi e aspirazioni più precise (Ashforth & Fugate, 2001).

Le identità di carriera dirigono, regolano e sostengono i comportamenti, non possederle significa non avere un progetto e una linea guida. Molti studi attribuiscono proactive personality (Seibert et al., 2001), personal initiative (Frese e Fay, 2001), e proactive behaviours (Crant, 2000) al costrutto employability.

2.3.5 – Il contributo di Rifkin sull’occupabilità

Nonostante l’ampia letteratura in materia, è interessante notare come l concetto di “occupabilità” era già stato anticipato di fatto da Jeremy Rifkin (1995) economista, saggista ed attivista statunitense noto per la sua grande capacità di anticipare il futuro e per le sue numerose opere. Il tema fa capolino in particolare nel suo noto saggio “La fine del lavoro, il declino della forza lavoro globale e l’avvento dell’era post-mercato”.

Nella parte iniziale del libro, l’autore espone la sua tesi: prima delle rivoluzioni industriali, più del 90% della popolazione americana si occupava di agricoltura. Nella prima rivoluzione industriale, invece, grandi masse di lavoratori lasciano l’agricoltura per andare ad operare nelle fabbriche. Attualmente solo il 3% della popolazione si occupa di agricoltura, ma grazie alle macchine agricole, la domanda è ampiamente soddisfatta dalla copiosa produzione.

Nella seconda rivoluzione industriale, le macchine e l’automazione prendono il posto dell’uomo nell’industria manifatturiera e le masse di lavoratori lasciano le fabbriche per spostarsi nel terziario ed adottare il computer come strumento di lavoro.

Ora siamo nel corso di una terza rivoluzione industriale, nella quale l’incredibile progressione della potenza di calcolo dei moderni elaboratori pone in esubero un crescente numero di lavoratori.

A seguito di questo, la realtà che l’autore vuole evidenziare è che le masse di lavoratori che escono dal terziario, entrano a far parte del mondo della disoccupazione.

Tale teoria viene sviluppata nel libro con numerosi esempi ed approfondimenti che spaziano in tutti i settori merceologici. Viene fornita una valutazione degli impatti sociali ed economici delle rivoluzioni industriali passate e di quella in corso e viene affrontata la tematica della instabilità dei posti di lavoro odierni e la conseguente insicurezza dei lavoratori.

Di grande importanza è che, secondo l’autore, il mondo contemporaneo e soprattutto il settore della produzione necessitano di un minor numero di lavoratori rispetto al passato, ma dotati di un’elevata specializzazione. Per illustrare questo concetto, l’autore ripercorre il passaggio dalla catena di montaggio della Ford dei primi decenni del XX secolo sino alla “lean production” (produzione leggera e flessibile) della Toyota degli anni settanta.

Nella catena di montaggio, ogni operaio si occupava di un ruolo ripetitivo, ed a bassa specializzazione. La catena produceva un solo modello di autoveicolo, ed il passaggio ad un nuovo modello richiedeva un ingente investimento sulla catena di montaggio. Data la complessità della catena di montaggio, i guasti dei singoli stadi di lavorazione erano frequenti ed avevano importanti ripercussioni sul numero di autoveicoli prodotti per unità di tempo.

Nella “lean production” le autovetture sono costruite da sofisticati robot guidati da un numero limitato di tecnici con elevata specializzazione. Il passaggio ad un nuovo modello di autoveicolo richiedeva una più semplice riprogrammazione delle macchine. Il controllo sulla qualità era ed è più accurato ed i guasti nella produzione sono meno frequenti e con minori rallentamenti nel numero di autovetture prodotte.

La richiesta di lavoratori specializzati pone anche il problema di avere pochi lavoratori sovraccarichi di lavoro, e molti altri disoccupati o sottoccupati.

Secondo l’autore, almeno parte della soluzione risiede nella necessità di ridurre l’orario di lavoro al fine di dare lavoro a più persone possibile. L’autore prospetta inoltre una riconsiderazione della globalizzazione dell’economia, e la rivalutazione del terzo settore, ovvero il no-profit applicato ai servizi di utilità sociale.

Mentre il declino dell’economia di mercato e del settore pubblico prosegue, Rifkin ha previsto lo sviluppo di nuovo terzo settore, basato sul volontariato e sulle comunità organizzate – che creerebbe nuovi posti di lavoro con il sostegno del governo per ricostruire quartieri decadenti e fornire servizi sociali. Per finanziare questa realtà, ha sostenuto la necessità di ridimensionare il budget economico assegnato alle forze militari, mettendo in atto una imposta sul valore aggiunto sui beni e servizi non essenziali e sulla necessità di ri-orientare i fondi federali e statali USA per fornire un “salario sociale” al posto dei sussidi di solidarietà per i lavoratori di questo terzo settore.

L’opera di Rifkin è stata indubbiamente criticata proprio per via della sua importanza sul sul tema della “fine del lavoro” e nella letteratura degli anni 90 in genere. Il filosofo politico George Caffentzis (1998), ad esempio, ha concluso che la logica sottostante le argomentazioni di Rifkin è viziata perché si basa su un determinismo tecnologico che non tiene in considerazione le dinamiche di occupazione e di cambiamento tecnologico in epoca capitalistica.

Altra critica è che, secondo Rifkin, la produttività porterebbe alla distruzione di posti di lavoro, tuttavia il libro apparve quando la crescita della produttività risentiva di un rallentamento a partire dai primi anni del 1970. L’uso diffuso dei computer negli anni 80 e primi anni 90 non era all’altezza delle grandi aspettative di crescita della produttività e da qui nacque il così detto “paradosso della produttività”. Una forte crescita della produttività finalmente riapparve alla fine del 1990, durando alcuni anni, per poi rallentare di nuovo e addirittura puntare verso il basso: le cause sono tutt’oggi oggetto di discussione. Resta il fatto che un’eventuale crescita forte che tuttavia non assorba un gran numero di disoccupati è di fatto una ripresa senza occupazione e lavoro che è, almeno in parte, fasulla.

Rifkin, tuttavia, ha continuato a produrre saggi su lavoro, società ed economia anche nei tempi odierni, continuando a studiare ed osservare il mondo da questi aspetti. Già nella sua prima opera, egli ha avuto il grande merito di mettere in evidenza l’enorme cambiamento che le varie rivoluzioni industriali hanno messo in atto e di come la ricerca di lavoro per le persone sia diventata sempre più difficile anche in una nazione da sempre ricca come gli USA, con un plateale cambiamento delle competenze richieste per poter lavorare.

Nelle pubblicazioni successive (2004-2001) ed in particolare in “The European Dream” “ The Empathic Civilization”, Rifkin evidenzia come l’approccio politico Europeo sia più adatto di quello USA per affrontare le sfide del futuro a breve termine, evidenziando anche le differenze culturali che caratterizzano l’Unione Europea rispetto agli Stati Uniti. Un esempio è dato dal valore della vita e dalla morale sottostante alla scelta di abolire definitivamente la scena di morte, probabilmente derivanti dalle gravi perdite subite durante la II guerra mondiale, con pesanti implicazioni anche sulla concezione dell’uomo nella società e sul concetto di “welfare”, di politiche sociali e di supporto, che hanno a loro volta implicazioni anche nel mondo del lavoro. Un esempio è dato dall’assistenza sanitaria gratuita in Europa, finanziata a piene mani con le tasse pagate dai lavoratori: una strategia difficilmente concepibile per gli statunitensi, in quanto la loro cultura è centrata sul “sogno americano”, sul concetto d’impresa e relativi rischi così come vantaggi.

Ma tale conquista europea comporta anche la costituzione di un potere forte, quello dei medici e delle professioni sanitarie in senso stretto, dove gli esponenti godono di una maggiore occupabilità rispetto a quelli di altre professioni.

In “the emphatic civlization” (2010), Rifkin collega l’evoluzione della comunicazione e dello sviluppo dell’ energia nelle civiltà con sviluppo psicologico ed economico negli esseri umani. Il libro è diviso in tre parti e di particolare interesse in questa sede è la prima, in quanto analizza l’empatia dal punto di vista della psicologia, biologia e filosofia riferendosi alle opere di psicologia freudiana, di Melanie Klein, Ronald Fairbairn, Heinz Kohut, e Donald Winnicott, sino ad arrivare a John Bowlby ed alla teoria dell’attaccamento. Man mano che la teoria psicologica si è evoluta, l’empatia ha avuto un ruolo sempre più grande, soprattutto nello sviluppo emotivo ed intellettuale dei bambini. In termini di biologia, Rifkin collega la funzione biologica dei neuroni specchio; filosoficamente, Rifkin esplora il rapporto empatia-altruismo, la fede contro ragione, la verità contro la realtà. La cosa importante è che Rifkin si dichiara a favore del “relazionalismo”, in quanto il senso dell’esistenza è quello di entrare in relazione con altre persone e che solo grazie all’empatia si possono identificare i significati profondi di verità, libertà, democrazia, uguaglianza e mortalità. Il relazionalismo è una posizione teorica che dà importanza alla natura relazionale delle cose: le cose esistono e funzionano solo come entità relazionali. IL relazionalismo può essere in contrasto con relazionismo, che tende a sottolineare le relazioni di per sé. In teoria sociale, Il relazionalismo è spesso in contrasto con il sostanzialismo (gli individui sono visti come entità auto-sussistenti in grado di interagire socialmente) in quanto il relazionalismo sottolinea le pratiche umane sociali, i contesti transazionali individuali e le relazioni reciproche. (Mustafa, 1997)

Altresì, anche il saggio di Rifkin evidenzia come l’intelligenza emotiva, fortemente associata all’empatia come visto prima, è un elemento fondamentale della società moderna e quindi parte integrante di quell’insieme di competenze e requisiti intesi in senso lato che caratterizzano un’ottimale occupabilità.

Anche con la pubblicazione del 2011, “The Third Industrial Revolution” Ripkin ritorna sulla connessione tra energia, lavoro e società.

Il titolo in italiano “La terza rivoluzione industriale: come il ‘potere laterale’ sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo introduce l’avvento della nuova rivoluzione industriale in seguito alla compresenza di risorse energetiche e mezzi di comunicazione idonei, nonché all’impellente necessità che si ha di prevenire una catastrofe climatica. Il tema trattato contiene una dettagliata descrizione non solo del passaggio dai combustibili fossili alle risorse rinnovabili con la relativa fine dell’era del carbonio, ma anche dell’impiego di un “internet” delle energie e di edifici generatori.

Rifkin immagina il futuro come un’analogia di internet ma per l’energia elettrica, dove ogni cittadino da casa, dall’ufficio o da qualsiasi altro edificio potrà produrre energia da utilizzare in proprio o da condividere nel sistema a cui è collegato tutto il mondo. Il futuro del regime energetico è visto come distribuito e collaborativo, al contrario dell’attuale centralizzato e gerarchico. Assieme al cambiamento economico-energetico sarà anche necessario accompagnare una rivoluzione culturale il cui principale obiettivo sarà lo sviluppo di una “coscienza biosferica” ed il raggiungimento di nuove forme di capitalismo più cooperativo, là dove quello attuale è ormai obsoleto. Ancora, le competenze che emergono come fondamentali per il prossimo futuro sono quelle socio-relazionali e dunque associate ad un’intelligenza emotiva, assieme a quelle “tecniche” relative alle nuove tecnologie.

Nel suo ultimo libro del 2014, “The Zero Marginal Cost Society: The internet of things, the collaborative commons, and the eclipse of capitalism” (traducibile in italiano come “La società dal costo marginale zero: l’internet delle cose, i beni condivisi in modo collaborativo e l’eclisse del capitalismo”), Rifkin riprende in parte i temi trattati nel libro precedente, evidenziando un paradosso al cuore del capitalismo che, se da un lato ne ha fatto la grandezza, ora rappresenta la causa del suo stesso declino: il dinamismo intrinseco imprenditoriale dei mercati concorrenziali che spinge la produttività verso l’alto ed i costi verso il basso, consentendo alle aziende di ridurre il prezzo dei loro beni e servizi al fine di conquistare i consumatori e nuove quote di mercato. (Il costo marginale è il costo di produzione di unità aggiuntive di un bene o servizio, se i costi fissi non sono conteggiati.) Mentre gli economisti hanno sempre accolto una riduzione del costo marginale, non hanno mai anticipato la possibilità di una rivoluzione tecnologica che potrebbe portare i costi marginali di vicino allo zero, rendendo beni e servizi senza prezzo, quasi liberi, abbondanti e non più soggetti a forze di mercato.

Ora, un formidabile nuova infrastruttura tecnologica – l’Internet delle cose (IoT) – sta emergendo con il potenziale di spingere ampi segmenti della vita economica quasi ad un costo marginale pari a zero, almeno negli anni a venire. Rifkin descrive come l’Internet comunemente inteso, ovvero quello della comunicazione (Communication Internet) sta convergendo con l’ Energy Internet ed il Logistica Internet, per creare una nuova piattaforma tecnologica che collega tutto e tutti. Miliardi di sensori sono stati collegati alle risorse naturali, alle linee di produzione, alla rete elettrica, alle reti logistiche, ai flussi di riciclaggio ed agli impiantati di case, uffici, negozi, veicoli e persino agli esseri umani, alimentando la creazione di Big Data (raccolte di informazioni estremamente grandi e complesse) in una rete neurale globale dell’Internet degli oggetti. Prosumer (consumatori che sono anche produttori) a breve saranno in grado di connettersi alla rete ed utilizzare i Big Data, le analisi ed algoritmi per accelerare l’efficienza, potranno aumentare notevolmente la produttività e ridurre il costo marginale di produzione e condivisione di una vasta gamma di prodotti e servizi rendendo tale costo prossimo allo zero, proprio come ora già si fa con i beni di informazione.

Il crollo dei costi marginali sta generando un’economia ibrida – in parte quella classica di mercato capitalista ed un’altra legata ai “collaborative commons” (beni comuni condivisi in modo collaborativo) – con implicazioni di vasta portata per la società. Centinaia di milioni di persone stanno già diventando prosumers (consumatori/produttori al tempo stesso) trasferendo parti della loro vita ai Creative Commons, specialmente per quello che riguarda l’Internet delle cose, le informazioni, l’intrattenimento, l’energia verde ed i prodotti stampati in 3D con un costo marginale prossimo allo zero.

Si stanno sviluppando anche nuovi fenomeni come il car saring (condivisione di auto), di case ed uffici (es. il co-working) addirittura vestiti ed altri oggetti tramite internet, associazioni di ridistribuzione dei beni e cooperative a costo marginale molto basso o vicino allo zero. Nel frattempo, sempre più studenti si stanno iscrivendo a corsi on-line aperti e gratuiti ( i così detti “MOOCs”) che operano anchessi ad un costo marginale prossimo allo zero. Gli imprenditori sociali stanno addirittura scavalcando le istituzioni bancarie e preferiscono l’utilizzo di finanziamenti collettivi per i propri avvi d’impresa, così come la creazione di valute alternative per la nuova economia della condivisione. In questo nuovo mondo, il capitale sociale è importante quanto il capitale finanziario, l’accesso viene prima della proprietà, la sostenibilità sostituisce il consumismo, la cooperazione spodesta la concorrenza, ed il “valore di scambio” nel mercato capitalista è sempre più sostituito dal “valore di condivisibile” nei Collaborative commons.

Rifkin conclude che il capitalismo rimarrà con noi, anche se in un ruolo sempre più marginale, in primo luogo come un aggregatore di servizi e soluzioni di rete, permettendogli così di rifiorire come un potente attore di nicchia nel futuro prossimo a venire. Siamo quindi prossimi ad entrare in un mondo al di là mercati, in cui stiamo imparando a vivere insieme in un modo sempre più interdipendente basato sui Collaborative Commons.

Anche qui, emerge in modo indiretto come le competenze richieste nel prossimo futuro per poter operare nel nuovo mercato, ammesso che le sue previsioni siano corrette, sono sempre legate all’intelligenza emotiva e sono sia di tipo tecnico che socio-relazionale.

2.4 – L’occupazione in Italia: dati recenti.

Secondo il Sole 24 ore (sito web, 14 Maggio 2014), Il tasso di occupazione in Europa tra i 20 e i 64 anni scende per il quinto anno consecutivo dal 2008 e l’Italia fa registrare il calo più accentuato dopo la Grecia: dal 61% nel 2012 scende al 59,8% del 2013, lontana dalla media della Ue-28 che scende a 68,3%, perdendo solo uno 0,1 sul 2012. Lo comunica Eurostat. Il livello di occupazione in Italia tra i 20 e i 64 anni torna così ai livelli del 2002: secondo Eurostat, l’occupazione in Italia non scendeva sotto il 60% dal 2002, quando era al 59,2%.

Solo la Grecia nel 2013 ha perso più dell’Italia: il tasso di occupazione è sceso da 55,3% a 53,2%, perdendo 2,1 punti. Tra i grandi Paesi europei, l’Italia è quella dove l’occupazione si è deteriora maggiormente: la Spagna, dove la disoccupazione galoppa, ha visto scendere il suo tasso di occupazione di 1,1 punti rispetto al 2012 (portandosi a 58,2%), mentre la Francia ha guadagnato uno 0,1 e ora è al 69,5%. Positiva anche la Gran Bretagna che con 0,7 punti tocca il 74,9%, e la Germania ne guadagna 0,4 e sale fino a 77,1%, superando di 0,1 punti il suo target fissato dalla strategia Europa 2020, cioè l’obiettivo per l’occupazione che i Paesi europei si sono impegnati a raggiungere, d’accordo con la Commissione che monitora i progressi. Per l’Italia l’obiettivo è un tasso di occupazione al 67%

In Europa il tasso di occupazione sale solo per gli over 55: secondo Eurostat, il tasso degli occupati tra i 55 e i 64 anni è salito costantemente dal 2002, portandosi da 38,1% a 50,1% nel 2013. Anche l’Italia segue il trend europeo con un miglioramento costante anche negli anni della crisi, e da 28,6% del 2002 tocca il 42,7% nel 2013, guadagnando 2,3 punti solo nell’ultimo anno.

Ma quali sono i corsi di laurea migliori per entrare nel mondo del lavoro? È meglio fermarsi dopo tre anni di studio o puntare al titolo specialistico? E dopo l’università, quanto si guadagnerà? Sono le domande inevitabili per i giovani, sia al momento dell’iscrizione, sia lungo il percorso accademico. Le risposte arrivano dai dati del consorzio Almalaurea.

Così, tra i laureati di primo livello, se la maggior parte (il 41,5%) decide di continuare a studiare e di iscriversi alla specialistica, una buona fetta (il 29,4%) a un anno dalla laurea lavora con guadagni mensili netti medi di 955 euro.

La situazione migliora se si guarda ai laureati specialistici: a un anno dal titolo, il 56,8% lavora con un guadagno netto mensile di 1.080 euro; dopo tre anni, la percentuale degli occupati sale al 74,1% e lo stipendio medio a 1.261 euro. Mentre la ricerca del posto di lavoro si sposta in avanti per molti usciti dai corsi a ciclo unico: tra questi, i laureati in medicina e in giurisprudenza sono spesso impegnati in attività di formazione post laurea, come visibile nelle seguenti tabelle.

(omissis)

Per quel che riguarda la disoccupazione giovanile (IlSole24 ore, Gennaio 2014), essa è cresciuta ancora a novembre 2013, toccando il 41,6% in aumento di 0,2 punti rispetto a ottobre (dato rivisto al rialzo al 41,4%) e di quattro punti rispetto a novembre 2012. Lo rileva l’Istat nelle stime provvisorie, spiegando che il tasso è al top dall’inizio delle serie storiche, ovvero dal 1977. Il tasso di disoccupazione generale a novembre si attesta invece al 12,7%, con un aumento di 0,2 punti percentuali su ottobre e di 1,4 punti su anno. Anche questo è un dato record.

Un giovane su dieci è disoccupato; in totale, i disoccupati tra i 15-24enni sono 659 mila. La loro incidenza sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e in aumento di 0,4 punti su base annua. Ciò significa che un giovane su dieci è disoccupato. L’Istat ricorda che il tasso di disoccupazione giovanile è la quota dei giovani disoccupati sul totale degli attivi (occupati e disoccupati). I giovani inattivi sono nel complesso quattro milioni 424 mila, in aumento dell’1,9% (+81 mila) rispetto a novembre 2012. Il tasso di inattività dei giovani è pari al 73,7%.

Il tasso di disoccupazione generale a novembre si attesta al 12,7%, con un aumento di 0,2 punti percentuali su ottobre e di 1,4 punti su anno. Il numero dei disoccupati è pari a 3 milioni 254mila, in aumento dell’1,8% su ottobre, pari a 57mila unità in più, e del 12,1% su base annua, pari a 351mila unità in più. La crescita tendenziale della disoccupazione è più forte per gli uomini (+17,2%) che per le donne (+6,1%).

Gli occupati a novembre sono 22 milioni 292mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55mila) e del 2% su anno (-448mila). Il tasso di occupazione è al 55,4%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali su ottobre e di un punto rispetto a novembre 2012.

Secondo l’Istat in sei anni, tra novembre 2007 e novembre 2013 in Italia gli occupati sono diminuiti di 1,1 milioni di unità mentre i disoccupati sono più che raddoppiati passando da 1.529.000 a 3.254.000 (1,725 milioni in più) L’Istat spiega che i maschi disoccupati sono aumentati di 1,1 milioni (poco più di 600.000 le femmine). Il calo dell’occupazione nei sei anni è stato esclusivamente maschile (1.165.000 posti in meno) mentre per le femmine si è registrato un aumento di 65.000 unità.

Resta invariata intanto al 12,1% la disoccupazione a novembre nella zona euro mentre in Italia sale al 12,7%, rispetto al 12,5% di ottobre registrando uno degli aumenti più alti. Lo rileva Eurostat sottolineando come cresca la disoccupazione giovanile: nell’Ue-18 è al 24,3% rispetto al 24,2 di ottobre. Tassi più bassi in Germania (7,5%) e Austria (8,6%); più alti in Spagna (57,7%), Grecia (54,8% a settembre). Complessivamente tassi più bassi di disoccupazione totale in Austria (4,8%) e Germania (5,2%); più alti in Grecia (27,4% a settembre) e Spagna (26,7%).

2.4.1 – Le professioni del futuro

Altro elemento d’interesse riguarda le così dette nuove professioni del futuro (ormai presente). Secondo un’indagine divulgata da “Repubblica” online, svolta da Unioncamere, sono 30 le professioni “senza crisi”, quelli che le aziende assumono e la cui richiesta sarebbe aumentata negli ultimi tre anni.

Tra le professioni con elevate competenze, quelle che meglio di altre stanno uscendo dai cambiamenti strutturali che sono in atto nel sistema produttivo italiano, ci sono soprattutto figure attive nell’efficienza della gestione aziendale, nel controllo di qualità e nello sviluppo di nuovi mercati. Sono professioni terziarie, al di là del settore che le domanda. O professioni di progettazione e sviluppo di nuovi prodotti e servizi nel settore industriale. A dirlo è Claudio Gagliardi il direttore del centro studi di Unioncamere che, con il rapporto Excelsior, ha analizzato il fabbisogno di capitale umano delle imprese attive in Italia. In questi ultimi anni è stato importante anche l’aumento della domanda per le professioni specializzate nel settore dell’information technology, così per le professioni che svolgono un ruolo chiave nella gestione dei rapporti a monte e a valle delle filiere produttive. Sembra assestarsi invece la domanda degli addetti alle vendite.

Il controller e il contabile. Nel dettaglio, le figure ad elevata competenza che negli ultimi tre anni hanno registrato i più significativi incrementi in termini assoluti sono le professioni tecnico-specialistiche impegnate nell’amministrazione, nel controllo di gestione e nella finanza (vedi tabella TOP 30). Al termine dell’anno in corso, le assunzioni per queste figure dovrebbero raggiungere quasi le 53 mila unità tanto da valere da sole quasi un terzo (il 30,7 per cento) del gruppo qualificato delle professioni high skill. Nel 2006, le stesse figure, valevano “solo” il 23,3 per cento.

I programmatori e i progettisti. Nello stesso arco di tempo hanno mostrato un’evoluzione positiva anche tutte quelle figure che sono in qualche modo collegate alle strategie di riposizionamento competitivo del nostro apparato produttivo e quelle che perseguono maggiori margini di efficienza dei processi produttivi e gestionali. Ben visti dalle imprese e dagli uffici del personale, sono quindi gli addetti alle fasi di progettazione e sviluppo di nuovi prodotti/servizi, i disegnatori cad-cam, i progettisti meccanici, i programmatori e gli analisti programmatori informatici. Altrettanto bene gli addetti alla logistica, gli addetti agli acquisti e i responsabili di magazzino.

Infermieri e addetti alla cultura. C’è poi tutto il mondo professionale collegato ai servizi alle persone. Negli ultimi tre anni la domanda di infermieri, fisioterapisti, assistenti sociali è cresciuta mediamente del 9,9 per cento annuo. E poi, pure rappresentando ancora una componente di dimensioni ridotte, tutte quelle professioni legate alla cultura, allo spettacolo e allo sport per cui sono previste, dalle imprese private, circa 5mila assunzioni.

Imprese che guardano all’estero. Ultimo, ma non meno importante, il mondo delle (poche) aziende “virtuose” che guadagnano all’estero, che prestano attenzione alle risorse umane e investono in capitale umano; aziende che hanno una proiezione all’estero e che sono quelle che richiedono con maggiore frequenza ai propri futuri dipendenti il possesso di un diploma o della laurea ed esprimono una più sensibile domanda di profili high skill. Non solo però. Questa evidenza diventa persino maggiore nelle imprese che manifestano una forte propensione all’innovazione. In particolare, sono i settori della meccanica e quelli dell’informatica a dimostrare maggiore propensione agli investimenti in risorse umane di qualità, più esperte. Seppure il titolo di studio è centrale per queste figure (la gran parte di loro infatti deve essere laureato), da solo, tende a bastare sempre meno. Per queste figure, forse ancora più che per le altre, conta sempre di più l’esperienza. Tanto che mentre nel 2006 il 26 per cento delle assunzioni di figure qualificate riguardava persone al primo impiego, oggi quella stessa quota è scesa di cinque punti percentuali.

Quanto al futuro, la domanda di queste professioni dovrebbe continuare a crescere. Gagliardi assicura che le proiezioni di Unioncamere portano a stimare che circa un quarto del fabbisogno medio annuo di professioni nel periodo 2009-2014 dovrebbe riguardare profili high skill. Una quota significativa di queste, quasi il cinquanta per cento, riguarderà figure tecniche impegnate nel marketing e nello sviluppo di nuovi mercati, alla ricerca dei nuovi bisogni dei clienti e nella progettazione di nuovi prodotti. In forte sviluppo anche i servizi alle persone, considerate anche le prospettive demografiche.

Si riporta con scetticismo, per completezza, anche il contenuto parziale della newsletter di Giugno ad opera del sito di annunci per la ricerca di lavoro, “Helplavoro.it”, che propone, tra le professioni anticrisi, le seguenti:

  • Webwriter e scrittore;
  • Analista programmatore;Grafico o Web Designer;
  • Wedding Planner;
  • Fotografo Professionista;
  • Interior Designer;
  • Personal Trainer;
  • Fragrance Designer;
  • Sales e HR Manager;
  • Personal Shopper;
  • Product Designer;
  • Esperto di Moda;
  • Esperto di Galateo;
  • Corso ECDL (PC)
  • Addestratore Cinofilo.

PARTE SECONDA

Ricerca esplorativa

Obiettivi ed ipotesi

Conseguentemente a quanto raccolto nella parte di ricerca bibliografica, si è voluto andare a contestualizzare tali nozioni tramite una ricerca di carattere puramente esplorativo, che mette a confronto indiretto i precedenti risultati ottenuti indagando la job satisfaction di lavoratori con contratto tipico ed atipico ed i valori personali, confrontandoli ora con le scelte di vita effettuate nell’arco di circa 4 anni e mezzo, proponendo una sorta di breve follow-up della precedente ricerca quando disponibile, per indagare anche la situazione occupazionale dei precedenti e nuovi intervistati.

Specifico ulteriormente su questo blog che il presente questionario è stato realizzato da me basandomi su tutta una serie di esperienze pregresse in ambito di ricerca psicosociale, somministrazione di test psicologici di varia natura e, soprattutto, su una serie di interviste prima destrutturate e poi semi-strutturate. Il risultato è uno strumento d’indagine che, almeno in apparenza, è risultato altamente comprensibile per l’utenza a cui è stato somministrato, contenendo così di molto la probabilità di incorrere in bias (errori di lettura, fraintendimenti) anche grazie ad una serie di domande poste in modo concreto, semplice ed interessante per le persone, che sono state molto motivate nel partecipare ad un’indagine percepita come molto vicina, interessante ed utile.
L’utilità di questo strumento sta nell’avere uno spaccato della società dal punto di vista degli attori sociali coinvolti, ovvero le persone che lavorano e che sono in cerca di occupazione, senza l’intento di misurare alcun costrutto psicologico (ma potenzialmente offrendo spunti per future ricerche). Tale spaccato va oltre alcune convezioni giuridiche ed economiche ormai obsolete, che non combaciano più col sentire delle masse (come il massimo di introiti annui individuali per mantenere lo stato di disoccupazione, con relative implicazioni) e comporta invece pesanti implicazioni perché alla base delle risposte ottenute c’è la percezione soggettiva degli intervistati, derivante a sua volta dal sistemi di aspettative individuali e dal confronto sociale col prossimo, sia con i propri pari che con chi sta meglio o peggio nella scala gerarchica esistente nella società contemporanea e locale.

Fig. 1: tabella riassuntiva della distribuzione delle risposte, escluse le domande aperte.

Nome – Item – Distribuzione delle risposte – Tot.

  • Genere (M/F) 75 78 153
  • Percentuale 0,49 0,51
  • Età (18-61+) 34 56 23 17 19 4 0 153
  • Percentuale 0,22 0,37 0,15 0,11 0,12 0,03 0,00
  • Residenza 77 55 13 8 153
  • Percentuale 0,50 0,36 0,08 0,05 0,00 0,00 0,00
  • Livello studi 0 0 0 42 37 49 25 153
  • Percentuale 0,00 0,00 0,00 0,27 0,24 0,32 0,16
  • Stato Occupazione 22 53 4 31 7 31 5 153
  • Percentuale 0,14 0,35 0,03 0,20 0,05 0,20 0,03
  • Speranza lavoro 7 19 40 66
  • Percentuale 0,11 0,29 0,61
  • Libero professionista 2 7 19 10 38
  • Percentuale 0,05 0,18 0,50 0,26
  • Studiare ancora 27 39 66
  • Percentuale 0,41 0,59
  • Fuga Estero 92 31 30 153
  • Percentuale 0,60 0,20
  • Soddisfazione 3 17 28 43 62 153
  • Percentuale 0,02 0,11 0,18 0,28 0,41
  • Rammarico 23 30 42 53 23 148
  • Percentuale 0,16 0,20 0,28 0,36 0,16Follow up 62 91 153
    Percentuale 0,41 0,59
  • Nuovo lavoro? 7 0 5 12 3 12 11 12 62
  • Percentuale 0,11 0,00 0,08 0,19 0,05 0,19 0,18 0,19
  • Più soddisfatto? 20 0 20
  • Percentuale 1,00 0,00

1.2 – Il questionario utilizzato

Lo strumento d’indagine, chiaramente non validato, è presente in appendice: esso è stato realizzato grazie all’esperienza col precedente lavoro di ricerca in particolare e le difficoltà emerse con gli strumenti di Marini e Schwartz, unita ai dati emersi tramite interviste orali semi-strutturate, per cogliere gli elementi più significativi per i possibili destinatari e scritto cercando di mantenere sempre un linguaggio semplice e comprensibile.

Lo strumento è e rimane appunto un questionario esplorativo, per una generica raccolta di informazioni utile a completare il presente lavoro di tesi ed, eventualmente, eventualmente da approfondire con ben altri strumenti che indaghino specifiche dimensioni o costrutti.

La distribuzione del questionario è stata semi-probabilistica, non disponendo dei mezzi per somministrarla ad un campione totalmente randomizzato né rappresentativo della popolazione locale, ma anzi risente dei pregi e limiti della rete sociale del sottoscritto. Per tali motivi, si è scelto di non procedere oltre il semplice confronto dei dati grezzi così ottenuti, nemmeno con un’ANOVA.

1.3 – Considerazioni sui dati grezzi

La precedente tabella schematizza i risultati così ottenuti, dopo aver somministrato lo strumento a quasi 200 intervistati ed averne ricevuto esattamente 153 versioni compilate e restituite.

Non risultano item senza risposta, buon indicatore della comprensibilità del questionario anche nelle domande più lunghe e complesse.

Il campione risulta sufficientemente ben bilanciato tra maschi e femmine e con una distribuzione per età che va in modo seguente:

Fascia di età Persone nel cluster

  • 18-25: 34 (22%)
  • 26-30: 56 (37%)
  • 31-35: 23 (15%)
  • 36-40: 17 (11%)
  • 41-50: 19 (12%)
  • 41-60: 4 (3%)
  • 61+ 0

Tale distribuzione risente probabilmente della rete di contatti del sottoscritto, in quanto la concentrazione massima è tra i coetanei e le persone leggermente più giovani, nonché forse più colpite dal problema “disoccupazione”.

Per l’elemento geografico, la residenza principale degli intervistati e dunque grosso modo l’area di lavoro è concentrata nel sud della Sardegna.

  • Cagliari 77 (50%)
  • Hinterland cagliaritano 55 (36%)
  • Sardegna, altro 13 (8%)
  • Continente italiano 8 (5%)

Riguardo l’istruzione, abbiamo la seguente distribuzione:

  • Scuola elementare, Scuola media, Scuola superiore 0%
  • Istituto tecnico di formazione professionale 42 (27%)
  • Laurea triennale o di I livello 37 (24%)
  • Laurea magistrale/quinquennale/specialistica o di II livello 49 (32%)
  • Master post lauream o dottorato di ricerca 25 (16%)

Il dato interessante è che nessuno degli intervistati si è fermato alla scuola dell’obbligo, ma anzi molti hanno investito in istituti tecnici per acquisire competenze oppure hanno continuato gli studi raggiungendo più frequentemente il pieno raggiungimento della laurea e non di rado continuando con la formazione successiva, seppur con limiti presumibilmente dovuti alla scarsa disponibilità economica, aggravata dai costi per superare l’isolamento e raggiungere il continente italiano.

Passiamo quindi ad esprimere delle considerazioni sul questionario vero e proprio.

1 – Indichi la condizione che meglio rispecchia la sua condizione lavorativa nel presente. Se lo ritiene opportuno, può scegliere più di una risposta:

Occupato con un lavoro a tempo indeterminato 22 (14%)
Occupato con un lavoro a tempo determinato/atipico 53 (35%)
Sono inoccupato (non ho mai lavorato) 4 (3%)
Sono disoccupato (ho lavorato in passato ed ora sono senza lavoro) 31 (20%)
Sono lavoratore autonomo o libero professionista con partita IVA ed ho una mia attività avviata che mi consente almeno di vivere autonomamente 7 (5%)
Sono lavoratore autonomo o libero professionista con partita IVA ma la mia attività non mi consente di vivere in autonomia, dunque svolgo o sono alla ricerca di un secondo lavoro per necessità economiche. 31 (20%)
Sono imprenditore. 5 (3%)
Altro (specificare) 0

L’item è stato pensato specificatamente per indagare la percezione delle persone, andando oltre le “soglie” utilizzate in ambito giuridico-normativo per collocare e classificare le persone entro le fasce di reddito, in quanto si ritiene che la condizione di stabilità economica derivi anche dalla percezione di poter essere autosufficienti e di poter condurre uno stile di vita influenzato anche dal confronto sociale e dai beni maggiormente diffusi, inclusi quelli che costituiscono bisogni indotti ma, non per questo, soggettivamente meno importanti.

2 – Se è lei disoccupato, indichi quale è la sua propensione nei confronti della ricerca di lavoro:

Continuo a cercare lavoro, sono fiducioso che presto troverò qualcosa 7 (11%)
Continuo a cercare lavoro ma non credo che troverò qualcosa a breve 19 (29%)
Ho perso la speranza di trovare lavoro, almeno a breve termine. 40 (61%)

Anche il presente item è collegato agli aspetti di personalità esaminati nella parte bibliografica, come il locus of control e l’auto-efficacia, ed indaga la percezione soggettiva relativamente al contesto. La stragrande maggioranza dei disoccupati pare altamente sfiduciata. I valori percentuali sono riferiti al totale delle risposte ricevute, ovvero al numero di disoccupati/inoccupati di fatto.

3 – Se lei è libero professionista o imprenditore, quale delle seguenti affermazioni rappresenta meglio la sua condizione? (Ricordiamo che il questionario è anonimo e che i dati raccolti sono trattati nel massimo rispetto della privacy):

Riesco a vivere una vita decorosa ed indipendente da terzi dichiarando al fisco tutti i miei guadagni. 2 (5%)
Riesco a vivere una vita decorosa ed indipendente da terzi solo lavorando almeno in parte in nero, evitando di dichiarare al fisco almeno parte dei miei guadagni. 7 (18%)
La mia attività mi porta dei guadagni ma non mi consentirebbe una vita indipendente dalla mia famiglia d’origine nemmeno evitando di dichiarare al fisco tutti i miei guadagni. 19 (50%)
Sono iscritto al mio ordine professionale ma di fatto non sto lavorando, perché (specificare) 7 (10%)

Questo item è stato pensato per esplorare un fenomeno noto e molto diffuso, ovvero quello dei neo-laureati e neo-abilitati alla professione che si dedicano alla libera professione in mancanza di valide alternative, senza venire “assorbiti” dal territorio in cui operano. Data l’intermittenza della clientela e l’insieme di tasse ed imposte dirette ed indirette, non stupisce che solo pochissimi riescano a lavorare serenamente, mentre altri – comunque pochi – devono necessariamente evadere il fisco per preservare la loro indipendenza economica dal nucleo familiare d’origine. La maggioranza ha comunque scelto la risposta n. 3, indicando un’alternativa preferibile allo stare con le mani in mano, presumibilmente per acquisire esperienza e farsi un nome o sperimentare col mercato del lavoro, oppure possibilmente anche come secondo lavoro. C’è anche un interessante numero di persone che si dichiara semplicemente iscritto all’albo, con la risposta più comune data nello spazio libero che è riassumibile come: “Perché sembrava l’ultimo passo logico da conseguire, dato che con la sola laurea pare che non ti calcolino e sembra che tu non sappia fare niente”.

Risulta interessante anche l’ampia quota di liberi professionisti che hanno dichiarato di evadere il fisco, probabilmente visto il legame di conoscenza personale col somministratore del questionario e la rinnovata garanzia di anonimato, di per sé non sempre sufficiente ad evitare risposte socialmente desiderabili ma meno autentiche e sincere.

4 – Sta proseguendo gli studi, ad esempio seguendo corsi di specializzazione, nuovi corsi di laurea, master o simili?

Sì 27 (41%)
No 39 (59%)

Dei 66 disoccupati, solo il 41% sta continuando a spendere tempo e soldi per continuare a formarsi ed avere competenze spendibili ed utili per trovare lavoro. Ben il 59% non lo fa, probabilmente per i costi della formazione, nonostante l’erogazione gratuita da parte della Regione Sardegna (come nel resto dell’Italia) tramite AltaFormazione, e probabilmente il dato è grosso modo in linea col precedente item riguardante la percezione di venire nuovamente assunti a breve.

Tra i brevi follow-up a voce ricevuti, alcuni hanno ammesso di aver ripreso a studiare all’Università intraprendendo nuovi corsi di laurea, sperando nelle borse di studio, nel tentativo di ri-convertirsi professionalmente e preferendo tale scelta alla totale disoccupazione ed al conseguente far niente.

5 – Che lei sia occupato o disoccupato, sta valutando nel presente l’opportunità di lavorare all’estero?

Sì 92 (60%)
No 31 (20%)
Forse (specificare): 30 (20%)

Anche il dato sull’emigrazione all’estero sembra riflettere il senso di sfiducia nel presente, in quanto include anche chi è occupato eppure una vasta maggioranza degli intervistati sta almeno valutando la possibilità di lavorare fuori.

Tra le risposte aggiunte alla sessione “forse”, le principali sono relative alla scarsa comprensione di una lingua straniera, indice anche di un sistema scolastico italiano inefficace; l’attaccamento alla famiglia, amicizie ed affetti così come alla propria terra natia, indicando anche una forte resistenza ed opposizione al cambiamento. Il conflitto interiore tra il bisogno di lavorare e la mancanza di opportunità in loco, unito alle difficoltà a spostarsi è evidente.

6 –Nel complesso quanto è soddisfatto del suo ultimo lavoro svolto o di quello corrente?

La invitiamo a considerare il senso di stabilità e sicurezza economica, i guadagni che ottiene, il piacere derivante dall’attività svolta, la facilità con cui riesce a svolgere il suo lavoro (anche inteso come il reperire clienti) ed ogni altro aspetto per lei importante.

Molto soddisfatto 3 (2%)
Abbastanza soddisfatto 17 (11%)
Né soddisfatto ma nemmeno insoddisfatto 28 (18%)
Abbastanza insoddisfatto 43 (28%)
Molto insoddisfatto 62 (41%)

La percentuale di persone insoddisfatte del proprio lavoro è indubbiamente notevole e ciò lascia ampie illazioni logiche alle cause, meglio esplorate in seguito, tra le quali insoddisfacenti stabilità, retribuzione, soddisfazione, coerenza con le aspettative ed i percorsi di vita e benessere negli ambienti di lavoro. Certo è che i dati così ottenuti sono in linea con la precedente ricerca, in cui il valore medio della soddisfazione era di 4,01 su una scala Likert a 7 punti e con una deviazione standard pari a 2,05. I precedenti risultati, insomma, mostravano una situazione in cui non si poteva parlare assolutamente di soddisfazione in positivo, ma solo di chi fosse meno insoddisfatto: ripensando l’item come una scala Likert a 5 punti, l’attuale valore medio di insoddisfazione è pari a 2,06 e, anche se i dati dovrebbero essere prima standardizzati per un serio confronto statistico, è comunque possibile intuire come la soddisfazione generale stia scendendo ulteriormente.

Un’altra supposizione, probabilmente fondata e da approfondire in altre sedi, è che anche l’insieme di valori secondo Scwhartz già identificato stia seguendo lo stesso trend, probabilmente con un aumento del valore del conservatorismo come indicatore di un crescente bisogno di stabilità.

7 – Col senno di poi, se avesse l’opportunità di cambiare le scelte professionali e formative effettuate nel suo passato, che l’hanno portata al suo presente lavorativo, quale tra queste risposte rispecchia meglio il suo pensiero?

Certamente manterrei tutto o quasi di quello che ho fatto, senza cambiare niente o molto poco. 23 (30%)
Probabilmente manterrei buona parte di quello che ho fatto, cambiando solo in parte le mie scelte. 30 (20%)
Probabilmente cambierei buona parte di quello che ho fatto, confermando solo in parte le mie scelte. 42 (28%)
Certamente cambierei tutto o quasi di quello che ho fatto, senza ripetere niente o molto poco. 53 (36%)

L’item n.7 è volto ad esplorare la possibile emozione del rammarico, un costrutto assai complesso con interessanti implicazioni sulla soddisfazione, in quanto è un’emozione ragionata provata non in base ai risultati oggettivi raggiunti ma a quelli potenziali mancati e plausibili. In generale, si osserva che, nonostante i dati negativi ottenuti con gli altri item, una considerevole minoranza degli intervistati ripeterebbe parte o molte delle scelte di vita fatte. La maggioranza, invece, è più a favore del cambiamento. La distribuzione delle risposte è comunque meno radicale rispetto a quella caratterizzante altri item, suggerendo numerosi elementi relativi a strutture egoiche, tratti di personalità e dinamiche socio-relazionali da approfondire in altre sedi.

Un altro interrogativo aperto che non si è voluto approfondire qui per preservare la brevità del questionario riguarda l’esplicita conferma ai corsi di studi intrapresi: le risposte qui ottenute ci dicono semplicemente che non poche persone potrebbero voler cambiare anche la scelta degli studi, ricordando che dai dati anagrafici il livello di scolarizzazione del campione è medio-alto.

Le risposte, tuttavia, non ci dicono se tale cambiamento riguarderebbe l’iscrizione ad altre università o corsi rispetto a quelli scelti nella realtà, oppure vorrebbe dire non studiare proprio all’università (ma preferire, piuttosto, dei corsi di abilitazione professionale) in modo da evitare il costoso e lungo iter universitario ed entrare prima, ed in modo più economico, nel mondo del lavoro.

8 – Lei ha partecipato al precedente questionario utilizzato per uno studio sulla soddisfazione lavorativa e valori personali, condotto dall’Università degli Studi di Cagliari tra il 2009 e 2010?

Sì 62 (41%)
No 91 (59%)

Le persone per il follow up sono state solo 62 sui quasi 400 intervistati del 2009-2010.

9- Ha cambiato la sua situazione lavorativa negli ultimi 4 anni circa?

Sì, avevo un lavoro a tempo indeterminato o ero un lavoratore autonomo ed ora sono disoccupato 7 (11%)
Sì, avevo un lavoro a tempo indeterminato o ero un lavoratore autonomo ed ora ho un lavoro con contratto atipico o a tempo indeterminato. 0
Sì, avevo un lavoro a tempo determinato/atipico ed ora sono disoccupato 5 (8%)
Sì, ero disoccupato ed ora ho un lavoro a tempo indeterminato oppure ho avviato una stabile attività indipendente 12 (19%)
Sì, ero disoccupato ed ora ho un lavoro a tempo determinato 3 (5%)
No, svolgo sempre lo stesso lavoro a tempo indeterminato o la libera professione 12 (19%)
No, svolgo sempre lavori atipici e salutari 11 (18%)
No, sono sempre disoccupato 12 (19%)

Anche il dato sulla situazione lavorativa, per quanto il campione sia ridotto e con una scarsa probabilità di rappresentare la popolazione reale, indica una sostanziale stabilità ed immutabilità della situazione lavorativa, dove sono più le persone che hanno perso il lavoro che quelle che hanno migliorato la loro condizione lavorativa. Anzi, chi era disoccupato è rimasto tale, anche se non è da escludere che abbia trovato e concluso (o perso) altri lavori nel frattempo.

10 – Se ha cambiato lavoro, ritiene di essere più soddisfatto rispetto a 4 anni fa circa, rispetto al tuo lavoro?

Sì 20 (100%)
No 0 (0%)

Questo item pare essere stato causa di un bias, dato che hanno risposto – tra i 20 che hanno effettivamente trovato lavoro – anche quelli che prima erano disoccupati. Ad ogni modo, il miglioramento indicato è palese sia per le persone che prima erano disoccupate ed hanno trovato un lavoro a tempo indeterminato, sia per le persone che prima erano di fatto “precarie” e sono riuscite a stabilizzarsi, ottenendo sicurezza. Un’ulteriore conferma che la job satisfaction risente anche del confronto sociale ed individuale con le precedenti condizioni e le generali opportunità percepite.

11 – Quali sono le principali cause di soddisfazione per il proprio lavoro?

A questa domanda, la risposta qualitativa più diffusa è stata “almeno faccio quello che mi piace”, seguita da “il mio è un lavoro sicuro”.

12 – Quali sono le principali cause di in soddisfazione per il proprio lavoro?

A questa domanda, le risposte sono state molto più varie e numerose. Si riportano le seguenti, in ordine sparso:

Le tasse sono eccessive, non riesco a pagare tutto
Mi costa troppo assumere dei dipendenti e non riesco a fare il lavoro da solo
Non trovo personale qualificato che sappia veramente produrre valore aggiunto, in ufficio o in cantiere;
Gli adempimenti normativi sono troppo complessi e non posso permettermi di pagare un avvocato ogni volta;
I clienti chiedono i servizi e poi non pagano, e mi costringono al recupero crediti;
Lo Stato Italiano non mi supporta, anzi è un “nemico” del business.
Non c’è mercato, la gente e le imprese non hanno soldi;

C’è una concorrenza spietata con i prezzi al ribasso: non è possibile mantenere un’attività con quei prezzi
Sono senza capitale per fare nuovi investimenti ma ho timore di indebitarmi con le banche.
Interessante notare come, tra le risposte ricevute, non ci siano frasi del tipo “non sono abbastanza bravo nel mio lavoro”, forse a suggerire un locus of control orientato verso l’esterno , indice di una cultura locale diffusa ed irresponsabile oppure di un diffuso senso di inadeguatezza davanti a problemi troppo grandi per il singolo, ricordando che la capacità di costituirsi in grandi gruppi non è esattamente tipica della cultura sarda, soprattutto al sud. Ancora, si può pensare ad una serie di problemi a livello sistemico che effettivamente non riguardano tanto l’abilità del singolo di saper fare il proprio mestiere, né di vendersi, quanto proprio la mancanza di lavoro ed i rischi elevatissimi che le attività imprenditoriali e libero-professionali comportano.

Nel complesso, il questionario è stato utile per disporre di una panoramica numerica su elementi caratterizzanti la vita degli attori sociali attivi in un contesto molto specifico, quello di Cagliari e dintorni che, tuttavia, già da solo rappresenta circa ¼ dell’intera popolazione sarda.

I dati grezzi ottenuti sembrano coerenti con quelli elaborati delle ricerche precedenti e con quelli presenti in letteratura, portando quindi ulteriori conferme al “sentire comune” ed illustrando almeno in parte le difficoltà che tali attori sociali devono affrontare nella sfida per la ricerca di lavoro, offrendo spunti sulle loro preoccupazioni, atteggiamenti, motivazioni e percezioni, nonché suggerendo ancora una volta come il contesto in senso lato abbia una parte assai importante almeno quanto la persona stessa e le sue caratteristiche d i “employability” nella ricerca di lavoro.

Tutti elementi, si ricorda, da approfondire con ben altri strumenti di ricerca in ambito psicosociale.

Considerazioni conclusive

La presente, piccola ricerca esplorativa è stata un modo per c0nfrontare determinate realtà locali con le teorie generali sul tema dell’occupabilità formulate dai grandi professionisti in economia, psicologia e sociologia, nati e vissuti però in altri contesti economici e socio-culturali.

Come già messo in evidenza prima, contano tanto le caratteristiche individuali quanto le opportunità date dal contesto e dunque una persona può essere potenzialmente “occupabile” in termini di rete e di caratteristiche individuali in senso lato, che deve essere anche presente in un territorio che offra realmente anche delle opportunità lavorative o il potenziale non si traduce in realtà di fatto.

Parte dell’occupabilità, intesa come caratteristica personale, sta anche nel saper essere flessibili – o accettare di dover rinunciare ai propri affetti e terra natia – per spostarsi in territori con maggiori opportunità, dove le caratteristiche individuali possono allora portare all’occupazione.

Questo ci ricollega certamente alla precedente ricerca del 2009-2010 e specialmente alla distinzione operata da Borgogni et al. (2003), dove l’autrice distingueva tra pseudo-dipendenti e pseudo-imprenditori, specificando come solo questi ultimi abbiano sia le risorse economiche a monte che le competenze individuali per poter agire quasi come liberi professionisti, imprenditori di sé stessi e rimanere occupati: soddisfazione a parte, ciò che l’autrice definiva coincide appunto con l’empolouability.

Ma come fanno certe persone a trovare lavoro, ad essere e restare “employable”, anche in tempi di estrema crisi?

Tralasciando le caratteristiche personali, il discorso riguarda anche e forse soprattutto il tipo di competenze possedute ad alti livelli che siano di interesse per le imprese e riconosciute a livello socio-culturale dall’utenza privata. Alcune di queste sono quelle che hanno a che fare con l’aumento delle vendite e dei profitti, o la riduzione del rischio di perdita economica, come le competenze riguardanti le nuove tecnologie internet, l’utilizzo professionale dei social media per il marketing, sino ad arrivare alla sicurezza informatica. Tanto più le competenze sono rare e richieste, tanto più è facile essere assunti o ingaggiati perché si possiede un potere di contrattazione molto forte, che porta ad essere accolti e retribuiti con ottimi compensi. Quando ciò non accade, come per esempio con le professioni più tradizionali, allora entrano in gioco fattori come esperienza e reputazione ma da sole, ancora, non sono sufficienti e, per raggiungere uno stato di occupazione lavora costante devono essere completati dall’inserimento del professionista in una rete di contatti attiva ed efficace.

In Italia, forse molto più che nel resto del mondo, è diffusa la cultura della protezione dei membri dell’ “ingroup”, ovvero dei propri cari che, se da un lato è umana e comprensibile, dall’altro comporta alla generazione di quelle “lobby” intese in senso negativo solo da noi italiani e che cercano il più possibile di preservare al loro interno il potere, la dominanza sociale ed il ritorno economico, affinché essi rimangano all’interno di quel gruppo, categoria o famiglia estesa. Parlare di accozzi, concorsi truccati e preparati ad arte per far assumere il figlio di Tizio o Caio non è altro che la testimonianza della forma più estrema ed iniqua di netwokring sociale, dove il capitale di contatti non viene guadagnato ma molto più spesso ereditato dalla propria famiglia d’origine e poi mantenuto ed accresciuto anche e spesso con le relazioni politiche e partitiche. Un vantaggio competitivo che difficilmente può essere colmato dal singolo che non lo possiede e che decide di investire (senza mezzi termini) in visibilità e relazioni, dato che anche la vita sociale costa in termini di tempo e danaro. Quando il fenomeno raggiunge dimensioni critiche, tanto da paralizzare l’economia e tanto da diventare parte integrante del concetto di normalità, e quando le opportunità lavorative scarseggiano, la società civile ed economica stessa inizia a collassare (o peggiora nel declino, se già indebolita da altre cause) sotto il peso dei danni sociali a lungo termine causati da persone “employed” non per merito e prive delle competenze dirette per svolgere i lavori (di responsabilità, ma anche non) per i quali sono assunti o ingaggiati.

Al contrario, là dove è presente un diverso rapporto tra opportunità di lavoro e contesto socio-culturale, caratterizzato da un nesso causale più diretto tra meritocrazia ed occupazione, allora il peso dei favoritismi per il sistema/società diventa molto inferiore e tollerabile e le caratteristiche dell’employability diventano nuovamente determinanti per il singolo individuo.

Quando si parla di favoritismi, tuttavia, non bisogna pensare solo alle grandi opportunità di carriera riservate agli attori sociali che sono figli delle grandi famiglie o che hanno forti legami con la politica, ma anche alle piccole realtà lavorative, dove la “selezione” del personale da assumere avviene prima tra parenti ed amici, quasi come garanzia di affidabilità – anche se in realtà è un bias per euristiche, dato che il solo legame familiare o amicale non è affatto garanzia né di competenze, né di affidabilità, ma può anzi portare a complicazioni ben peggiori in caso di conflitto in ambiente di lavoro, perché viene messo a rischio anche il rapporto personale con persone significative nella vita sociale oltre che lavorativa – anziché dare un’opportunità anche a persone esterne all’ingroup formalmente costituito o percepito, ovvero persone esterne alla cerchia di amici e conoscenti che costituiscono anche in modo non nitido il “gruppo” principale di vita di molte persone. A nostro avviso, un indicatore dell’inefficacia di questo aspetto culturale è che molte imprese, soprattutto di stampo familiare o di dimensioni micro e piccole, tendono a non sopravvivere in assenza dei loro fondatori, perché ad esempio ritirati a vita privata con la pensione, in quanto non sempre avviene un passaggio di consegna di mission e vision a persone dotati delle adeguate competenze per compiti manageriali.

In questa accezione, non può mancare l’usanza ormai consolidata di molti politici di ottenere voti in cambio della promessa di posti di lavoro: questi sono diventati una vera e propria merce di scambio, se vogliamo anche di ricatto sociale, resa appetibile e potente proprio per la scarsità della risorsa stessa, soprattutto nei confronti delle classi sociali più deboli e svantaggiate.

Questo è quanto succede anche in Italia, dove è possibile trovare una situazione estremamente variegata, complice la mancata e solo parziale unità culturale che mai è stata portata a termine dai tempi della riunificazione: le enormi differenze tra nord e sud, tra piccole e grandi città e tra continente ed isole, come appunto la Sardegna, giocano un ruolo importante nel determinare se l’empoloyability (occupabilità) di una persona si traduce poi di fatto in una condizione “empoloyed” (di occupato), dato che le grandi città offrono sicuramente maggiori opportunità di quanto facciano generalmente le piccole realtà rurali, nonostante queste ultime offrano una vita meno cara ed una minor competizione così come un mercato più povero e limitato.

Un altro elemento da mettere in relazione è il rapporto tra precariato e consolidamento delle competenze, che ho avuto modo di osservare per osservazione diretta grazie al mio ruolo di testimone privilegiato, in quanto convenzionato UILpa come consulente esterno per il mobbing, CTP/CTU per il tribunale ordinario e minorile di Cagliari, consulente personale e presidente dell’associazione di promozione sociale a favore dell’occupazione “Social Synergy”.

Bisogna fare un’importante premessa, tutt’altro che scontata: Cagliari non è rappresentativa della Sardegna, che a sua volta non è minimamente rappresentativa dell’intera Italia, per i motivi appena illustrati. Le caratteristiche culturali, geografiche, sociali ed economiche rendono possibili i confronti ma non l’estendere conclusioni da una realtà ad un’altra. Pertanto, almeno a Cagliari e dintorni, il precariato sta avendo con certezza un effetto negativo devastante sulle opportunità occupazionali, per i seguenti motivi:

  1. Forme di fatto atipiche di lavoro si sono sempre più diffuse per mantenere in attivo i bilanci di molte imprese, sia quelle caratterizzate da una bassa responsabilità sociale che potrebbero assumere ma non lo fanno, sia quelle che non possono invece fare diversamente. Tali forme hanno contribuito a ridurre il potere d’acquisto delle persone e quindi hanno contribuito a creare una forma di stagnazione dell’economia interna che porta le persone a non spendere in quanto povere o private di quella facoltà di pianificare le spese che è data solo dal lavoro a tempo indeterminato ma non da quella a tempo determinato, data l’incertezza di trovare un nuovo lavoro. Dunque, se le forme di lavoro atipiche inizialmente sono state un vantaggio competitivo per le imprese, utili per ridurre i costi, ora ci si ritrova con una massa che spende sempre meno e dove ciò che va per la maggiore sono i prodotti a basso costo e bassa qualità. In Sardegna, stanno fallendo anche gli studi odontoiatrici e sono in profonda crisi economica anche le discoteche nonostante entrambi siano da tempo immemore attività molto remunerative. Con un mercato povero, caratterizzato da una massa numericamente esigua (tutta la Sardegna ha circa 1.500.000 abitanti, meno di Roma o Milano da sole, mentre Cagliari raggiunge a stento i 400.000 abitanti se si include anche l’hinterland o “area vasta” circostante, con altre città o paesi come Quartu Sant’Elena), da una capacità di spesa molto limitata e da un numero di competitors esagerato, dovuto anche a difettose politiche sociali e piani per l’occupazione a lungo termine, come la scelta oggi palesemente scellerata di rimuovere l’accesso a “numero chiuso” alle Università locali. Oggi giorno è noto come tali università stiano immettendo migliaia di disoccupati sul mercato, perché il territorio non è in grado di assorbirli e la domanda di servizi terziari non è sufficiente ad “impiegare” tutti, a prescindere dalle forme contrattuali. Il mercato già piccolo e povero rimane così frazionato fra N. attori sociali che se lo contendono, senza i numeri necessari per garantire un adeguato ritorno economico degli investimenti economici per poter lavorare, partendo proprio da quelli spesi nell’istruzione obbligatoria e con le università. Come disse il prof. Stefano Paneforte, l’importante non è svolgere il “job” (ovvero il singolo compito) ma avere “the work” (ovvero il lavoro nella sua interezza): tale frase è particolarmente vera soprattutto in contesti analoghi a quello sardo e la differenza tra il “work” rispetto al “job” è data da quella componente di continuità a lungo termine che consente ai lavoratori di occuparsi più di fare il proprio mestiere che di occuparsi di vendere sé stessi e di cercare costantemente nuovi clienti: attività tra l’altro estenuante e molto faticosa, che comporta grossi problemi anche per un accavallamento di ruoli difficilmente compatibili (quello del venditore con quello del produttore del bene o servizio commerciato). Una nota a parte va scritta per quanto riguarda soprattutto i liberi professionisti: in un mercato povero o comunque spaventato all’idea di spendere anche quando potrebbe, si finisce spesso per lavorare solo per pagare le tasse e le imposte obbligatorie richieste da ordini professionali ed affini, anche per il terrore di Equitalia, senza accumulare poco o niente per sé stessi. La nuova tendenza dei datori di lavoro è quella di offrire lavori non retribuiti, con una “paga in visibilità” ai liberi professionisti, in cambio di servizi occasionali (ad esempio, come avviene per i fotografi in occasione degli eventi di moda locali, o per i professionisti che scrivono sulle riviste), delegando a terzi indefiniti la responsabilità di pagare la prestazione svolta. È un po’ una deformazione della logica del “te lo do gratis, ma tu lo paghi altrove e senza saperlo”, come i numerosi servizi web gratuiti che sono in realtà sostenuti dalla pubblicità che l’utenza paga quando acquista altri prodotti, come i beni materiali al supermercato o un’automobile che sono sati entrambi promossi ad es. su Youtube o con una inserzione a pagamento su Google, Bing o Yahoo!. Tuttavia la visibilità in un mercato povero ha un valore conseguentemente molto basso, in quanto saranno comunque in tanti ad essere interessati ai servizi ma in pochissimi a poterseli permettere ed essere quindi dei veri clienti. Come visto nel questionario, infatti, è molto sentito il problema dei clienti non paganti e dello Stato Italiano che non tutela il professionista in tal senso, complice la cultura contemporanea ed il nuovo sistema di valori che “autorizzano” implicitamente le persone a richiedere servizi e talvolta anche beni di cui hanno bisogno pur sapendo dall’inizio che non potranno pagare.
    L’implicazione di tutto questo, forse non ovvia, è che il sistema formativo Italiano, pur con tutti i suoi difetti, sta comunque immettendo nel mercato dei validi professionisti nei rispettivi settori, con competenze adeguate per svolgere adeguatamente i singoli lavori (jobs) e che quindi il raggiungimento di uno stato di occupazione non è collegato unicamente al possesso di competenze dirette padroneggiate ad alti livelli.
  2. L’abuso delle forme di lavoro atipico, oltre ad indebolire la capacità d’acquisto della massa che costituisce il mercato locale, ha privato le imprese anche dei così detti “core workers” (lavoratori-nucleo o centrali), ovvero quelli centrali ed essenziali per ogni impresa in quanto dotati sia delle competenze principali e richieste costantemente per portare avanti la mission organizzativa, sia di quell’esperienza specifica in una determinata organizzazione e legata alla conoscenza dei suoi aspetti culturali più profondi, che li rende una risorsa inestimabile in grado di dare valore aggiunto e maggiore produttività rispetto ad un lavoratore interinale, che rimane un esterno. Sebbene i core workers non siano affatto estinti, naturalmente, il turnover dei lavoratori atipici, che si alternano nelle imprese affiancando i “core”, è un processo destabilizzante per le imprese stesse e la vita da precario non consente ai lavoratori di sviluppare quel livello d’esperienza nelle competenze dirette e trasversali che solo la pratica costante può dare, vista la tendenza e necessità di accettare qualsiasi tipo di lavoro per non restare disoccupati e, non di rado, lavori nemmeno coerenti ed affini l’uno con l’altro, per i quali talvolta non si è nemmeno qualificati o competenti di fatto.

  1.  

Il precariato, in sostanza, sta comportando un indebolimento delle competenze sia sul fronte del “saper fare” proprio per il problema della mancanza di continuità nella pratica, sia su quello dell’investimento nello studio e nella formazione, dato che il rischio di non riuscire a recuperare quell’investimento e di lavorare in tutt’altro settore è concreto e probabile: rappresenta in sostanza il conflitto duale e tipico della società moderna tra la necessità di essere flessibili e la richiesta di un alto grado di specializzazione nelle competenze possedute.

Un altro problema molto diffuso, almeno a Cagliari e provincia, riguarda la concezione culturale del lavoro, che interferisce negativamente con il raggiungimento di una condizione “employed” di fatto, e non solo in base a soglie arbitrarie imposte dalla normativa in vigore, che possono coincidere comunque con una condizione di povertà ed insufficienza economica. Il lavoro, infatti, viene inteso, ricercato e desiderato da moltissimi ancora sul modello delle precedenti generazioni (genitori e, talvolta, anche nonni), che godevano del lavoro fisso e stabile per tutta la vita ed erano pronti a difendere i propri diritti di lavoratori, come il rispetto degli orari di lavoro e delle condizioni contrattuali, come se ogni richiesta fuori da quanto pattuito fosse un sopruso.

In un contesto dove la rigidità porta necessariamente al fallimento, e dove la flessibilità richiesta non sta nell’accettare compensi insulsi che non rispecchiano né valorizzano le competenze acquisite o nel fare ore di lavoro extra non retribuite, ma nel sapersi adattare ai bisogni organizzativi ed alle richieste del cliente, dimostrando così alti livelli di pro-attività, capacità di auto-attivarsi, comunicazione efficace interna/esterna, approccio al cliente (anche interno) e commitment. Queste qualità, tuttavia, non sempre sono presenti nelle persone (anzi, a volte non lo sono proprio) perché il lavoro viene vissuto ed immaginato come “mi danno lo stipendio ed io, per quella cifra, mi rendo disponibile tot ore, facendo quello che mi viene detto”. Manca quindi quel fattore di co-responsabilità e co-partecipazione alla mission e vision organizzative, ovvero ai destini delle imprese ed organizzazioni che rende difficilissimo mantenere attive quelle imprese (anche nel senso di “impresa, cosa difficile da realizzare”) che ormai sono praticamente prive di commesse certe ed a lungo termine e devono invece sopravvivere alla giornata, basandosi sul cliente occasionale che si cerca poi di fidelizzare. Il risultato è che le strutture organizzative, per quanto ben congegnate, risentono dei limiti culturali diffusi tra la massa, e la difficoltà a delegare responsabilità e compiti diventa concreta nel momento in cui scarseggiano decisamente persone valide per svolgere quell’insieme di attività che vanno oltre il singolo “job” proprio quando, invece, i lavoratori sono chiamati a portare nel lavoro tutto il loro essere positivo: dal saper fare al saper essere. Detto in altri termini, le persone che sanno svolgere il “job” sono tantissime, ma sono molte meno quelle che sanno aggregarsi, accettare investimenti economici, di energie psicofisiche e di tempo speso per creare delle strutture complesse ed organizzate, che sono poi le uniche in grado di dare più sicurezza al singolo individuo (grazie al rapporto di protezione reciproca che nasce e si sviluppa col gruppo di lavoro) in quanto consentono di raggiungere gli obiettivi che il singolo non potrebbe mai da solo: non soltanto per un discorso di competenze, in quanto non si può essere esperti in tutto, ma anche per un accavallamento di ruoli dove anche chi ha un vasto set di competenze, e potrebbe potenzialmente ricoprirli egregiamente, finisce per entrare in una condizione di infobesità ed affaticamento mentale, che precede la paralisi lavorativa ed il burnout. Ciò evidenzia come parte della crisi lavorativa stia anche nelle carenze relative alla leadership attuata dai datori di lavoro ed alla mancanza di co-responsabilizzazione nei dipendenti che, troppo spesso, vogliono restare ancorati al loro ruolo di “stipendiati de-responsabilizzati” e da lì la frase sempre più comune: “i giovani vogliono lo stipendio ma non il lavoro.”

Anche questo aspetto evidenzia come l’occupabilità riguardi pure le competenze trasversali o “soft”, a volte più importanti persino di quelle dirette.

Alla luce di quanto esposto, ricercato e scoperto sino ad ora, dato che l’employability rimane latente in assenza di un contesto dove essa possa concretizzarsi in un risultato, almeno parte della flessibilità richiesta sta sia nel sapersi adattare ed essere flessibili anche spostandosi in contesti con reali possibilità di occupazione, sia nell’atteggiamento mentale tenuto sin da troppe persone.

Per esperienza professionale diretta, infatti, molti giovani seguono una vocazione professionale talvolta anche illusoria ed immaginata ma scollata dalla realtà (come i tanti che si iscrivono in psicologia e poi rimangono inorriditi dopo il primo anno di studi perché non se la immaginavano come in realtà è), ove tuttavia essi pretendono di svolgere la professione dei loro sogni rimanendo nella loro città o paesello natio, cosa non sempre possibile.

Se, chiaramente, è importante coltivare le proprie passioni e mantenere un elemento di piacevolezza del lavoro (quando il lavoro non è un lavoro, allora non è una sofferenza ma un piacere), parte della flessibilità sta in decisioni ben ponderate, dove la scelta di seguire quel corso di laurea o di abilitazione professionale non può più esimersi da una valutazione e delle future possibilità lavorative in un dato contesto, anche sommaria e basata sul sentire ed esperienze comuni; quindi non può e non deve essere riassunta come un “fai un po’ quel che ti pare, perché tanto il mondo ha bisogno di tutto e conta solo la passione e l’impegno che ci metti: basta che studi e che ti laurei”, come magari succedeva un lustro fa.

Ritornando a termini più tecnici, si può citare il grande sociologo Weber, il quale affermava che anche l’agire sociale può essere determinato a livello motivazionale:

a) in modo razionale rispetto allo scopo, dove la persona orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi e gli scopi in rapporto alle conseguenze ad anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco. L’agire razionale rispetto allo scopo guarda solo all’efficienza dei mezzi per il raggiungimento dello scopo e, in caso di scopi concorrenti o contrastanti, l’individuo agente sceglie valutando la loro urgenza rispetto ad una scala di bisogni soggettivi.

b) in modo razionale rispetto al valore, dove agisce colui che è spinto dalla certezza nell’incondizionato ed indiscutibile valore di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalle conseguenze. La razionalità rispetto al valore pone i mezzi in secondo piano rispetto al valore assoluto attribuito allo scopo. Questo tipo di razionalità pone l’accento non sul valore in quanto tale, non sulla scelta, ma sul suo carattere incondizionato. Infatti, la scelta tra valori non può essere sottoposta a criteri razionali. Le scelte ultime che guidano l’agire sono cioè “questione di fede”: è questo il tema del politeismo dei valori. L’uomo che agisce volontariamente misura e sceglie tra i valori secondo la propria coscienza e secondo la sua personale concezione del mondo. La scienza può condurlo alla coscienza che ogni agire (ma anche il non agire) significa nelle sue conseguenze una presa di posizione in favore di determinati valori e perciò di regola contro altri. Compiere la scelta, però, è cosa sua.

Come si diceva, molti giovani agiscono in modo “razionale” rispetto al valore e non rispetto allo scopo quando si parla di lavoro; comportamento prevedibile viste e considerate anche le caratteristiche di autorealizzazione dello stesso e le implicazioni fortissime riguardanti il benessere e la soddisfazione personali, nonché il proprio Sé individuale e sociale. Tuttavia, questo è un lusso che il mercato del lavoro, sempre più esigente, competitivo e selettivo, consente sempre meno!

La flessibilità e la capacità di adattamento si dimostrano anche nel saper ri-adattare le vecchie competenze per nuovi lavori, ruoli e compiti, incrociandole con quanto appreso nel life long learning (apprendimento continuo), così come – soprattutto per i giovani che hanno concluso le scuole dell’obbligo e devono scegliere come formarsi professionalmente – nel conciliare le passioni personali ed aspirazioni di vita con ciò che è concretamente spendibile nel mondo del lavoro di un dato contesto, e quindi con ciò che si può realmente fare per prepararsi al mondo del lavoro e farsi assumere.

Per quanto il tema dell’employability trovi una sua principale collocazione all’interno della psicologia positivista come corrente di studi, obiettivo di questa ricerca è stato anche evidenziare come il lavoro sull’individuo per sviluppare quelle qualità necessarie a renderlo “employed” possa non essere insufficiente, dato che è innegabile il dualismo “individuo vs. contesto sociale”. Pertanto, il problema va affrontato anche a livello sistemico, dove la politica deve avere la sua parte di responsabilità e bisogna impostare dei percorsi di vita a favore delle persone che rispettino da un lato le vocazioni e tendenze professionali personali ma dall’altro accompagnino realmente ed efficacemente dentro un mondo del lavoro ad alta occupazione o, quando già nel suo interno, supportino attivamente gli attori sociali coinvolti nel restare occupati, grazie al dialogo tra le parti costituenti i vari “sistemi” aperti in cui viviamo, ovvero città, regioni, nazioni, unioni ed, in sostanza, il mondo stesso ormai in piena ed irreversibile globalizzazione.

Non possiamo infatti ignorare la complessità del mondo contemporaneo e nemmeno il fatto che il nostro cervello ha avuto pochissimo tempo per adattarsi a questo genere di problemi così come altri che, comunque, sono ben lontani da quelli su cui ci siamo concentrati per migliaia di anni d’evoluzione (rispetto ai quali i 6.000 anni dalle prime civiltà mesopotamiche appaiono ben misera cosa), quali la raccolta di cibo, l’evitare i predatori e l’accoppiamento. Essere flessibili, pro-attivi, adattabili in tempi brevi ha un costo e non è nemmeno un costo indifferente, anzi: come è dimostrato ampiamente nella letteratura psicologica, pensare è molto faticoso e l’essere umano ha bisogno anche di stabilità oltre che di cambiamento e stimoli, come indicato dalla precedente ricerca basata sugli studi di Schwartz..

Torniamo quindi al contributo di Rifkin, quando parla di internet oltre la concezione attuale e quindi verso un “internet delle cose” e di rete globale, di nuove forme di capitalismo a favore delle persone e di una rivoluzione industriale che possa incidere anche sulla qualità della vita delle persone, riportando la vita più a misura d’uomo e favorendo così l’insorgere di nuove realtà più favorevoli ad una condizione di “employment”.

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Appendice

Gli strumenti utilizzati

Dott. Mattia Loy, psicologo del lavoro e delle organizzazioni sociali
Questionario esplorativo sul lavoro ed occupazione

Premessa ed istruzioni

Gent.mo/a, il presente questionario è uno strumento per raccogliere informazioni riguardanti l’occupazione in Sardegna, con natura puramente esplorativa.

La preghiamo di rispondere a tutte le domande, ricordandole che il presente strumento non è un test psicologico di personalità, dunque esula da qualsiasi giudizio sulla sua persona.

Le chiediamo di esprimere la Sua valutazione alla luce della Sua esperienza personale e professionale, seguendo le istruzioni di volta in volta riportate: non esistono risposte giuste o sbagliate bensì risposte corrispondenti alla Sua personale valutazione.

Il questionario va compilato seguendo le istruzioni, solitamente ponendo una “X” sulla risposta che lei vuole darci, senza scrivere il suo nome e cognome: deve restare anonimo.

La invitiamo a compilare il tutto con la massima sincerità, con l’assicurazione da parte nostra che i Suoi dati personali verranno utilizzati in forma anonima ai soli fini statistici e nell’assoluto rispetto della normativa vigente in materia di tutela della privacy.

Scusandoci se, per nostra praticità, il questionario è rivolto unicamente al maschile, la ringraziamo per la sua collaborazione.

Dati anagrafici

Genere:

Maschile
Femminile
Età

18-25
26-30
31-35
36-40
41-50
41-60
61+
Residenza

Cagliari
Hinterland cagliaritano
Sardegna, altro (specificare: ____________________)
Continente italiano (specificare: ____________________)
Indichi il livello di studi più alto che ha raggiunto

Scuola elementare
Scuola media
Scuola superiore
Istituto tecnico di formazione professionale
Laurea triennale o di I livello
Laurea magistrale/quinquennale/specialistica o di II livello
Master post lauream o dottorato di ricerca
Questionario

1 – Indichi la condizione che meglio rispecchia la sua situazione lavorativa nel presente. Se lo ritiene opportuno, può scegliere più di una risposta:

Occupato con un lavoro a tempo indeterminato
Occupato con un lavoro a tempo determinato/atipico
Sono inoccupato (non ho mai lavorato)
Sono disoccupato (ho lavorato in passato ed ora sono senza lavoro)
Sono lavoratore autonomo o libero professionista con partita IVA ed ho una mia attività avviata che mi consente almeno di vivere autonomamente
Sono lavoratore autonomo o libero professionista con partita IVA ma la mia attività non mi consente di vivere in autonomia, dunque svolgo o sono alla ricerca di un secondo lavoro per necessità economiche.
Sono imprenditore.
Altro (specificare) ______________________________________
2 – Se è lei disoccupato, indichi quale è la sua propensione nei confronti della ricerca di lavoro:

Continuo a cercare lavoro, sono fiducioso che presto troverò qualcosa
Continuo a cercare lavoro ma non credo che troverò qualcosa a breve
Ho perso la speranza di trovare lavoro, almeno a breve termine.
3 – Se lei è libero professionista o imprenditore, quale delle seguenti affermazioni rappresenta meglio la sua condizione? (Ricordiamo che il questionario è anonimo e che i dati raccolti sono trattati nel massimo rispetto della privacy):

Riesco a vivere una vita decorosa ed indipendente da terzi dichiarando al fisco tutti i miei guadagni.
Riesco a vivere una vita decorosa ed indipendente da terzi solo lavorando almeno in parte in nero, evitando di dichiarare al fisco almeno parte dei miei guadagni.
La mia attività mi porta dei guadagni ma non mi consentirebbe una vita indipendente dalla mia famiglia d’origine nemmeno evitando di dichiarare al fisco tutti i miei guadagni.
Sono iscritto al mio ordine professionale ma di fatto non sto lavorando, perché (specificare)


4 – Sta proseguendo gli studi, ad esempio seguendo corsi di specializzazione, nuovi corsi di laurea, master o simili?


No
5 – Che lei sia occupato o disoccupato, sta valutando nel presente l’opportunità di lavorare all’estero?


No
Forse (specificare): ____________________________________


6 – Nel complesso quanto è soddisfatto del suo ultimo lavoro svolto o di quello corrente?

La invitiamo a considerare il senso di stabilità e sicurezza economica, i guadagni che ottiene, il piacere derivante dall’attività svolta, la facilità con cui riesce a svolgere il suo lavoro (anche inteso come il reperire clienti) ed ogni altro aspetto per lei importante.

Molto soddisfatto
Abbastanza soddisfatto
Né soddisfatto ma nemmeno insoddisfatto
Abbastanza insoddisfatto
Molto insoddisfatto
7 – Col senno di poi, se avesse l’opportunità di cambiare le scelte professionali e formative effettuate nel suo passato, che l’hanno portata al suo presente lavorativo, quale tra queste risposte rispecchia meglio il suo pensiero?

Certamente manterrei tutto o quasi di quello che ho fatto, senza cambiare niente o molto poco.
Probabilmente manterrei buona parte di quello che ho fatto, cambiando solo in parte le mie scelte.
Probabilmente cambierei buona parte di quello che ho fatto, confermando solo in parte le mie scelte.
Certamente cambierei tutto o quasi di quello che ho fatto, senza ripetere niente o molto poco.
8 – Lei ha partecipato al precedente questionario utilizzato per uno studio sulla soddisfazione lavorativa e valori personali, condotto dall’Università degli Studi di Cagliari tra il 2009 e 2010?


No
Se ha indicato “No” come risposta alla precedente domanda, passi solo alle domande 11 e 12. In caso contrario, la preghiamo di risponde anche alle ultime domande:

9- Ha cambiato la sua situazione lavorativa negli ultimi 4 anni circa?

Sì, avevo un lavoro a tempo indeterminato o ero un lavoratore autonomo ed ora sono disoccupato
Sì, avevo un lavoro a tempo indeterminato o ero un lavoratore autonomo ed ora ho un lavoro con contratto atipico o a tempo indeterminato.
Sì, avevo un lavoro a tempo determinato/atipico ed ora sono disoccupato
Sì, ero disoccupato ed ora ho un lavoro a tempo indeterminato oppure ho avviato una stabile attività indipendente
Sì, ero disoccupato ed ora ho un lavoro a tempo determinato
No, svolgo sempre lo stesso lavoro a tempo indeterminato o la libera professione
No, svolgo sempre lavori atipici e salutari
No, sono sempre disoccupato
10 – Se ha cambiato lavoro, ritiene di essere più soddisfatto rispetto a 4 anni fa circa, rispetto al tuo lavoro?

Si
No
11 – Quali sono le principali cause di soddisfazione per il proprio lavoro?



12 – Quali sono le principali cause di in soddisfazione per il proprio lavoro?



Il questionario è finito, grazie per la collaborazione.

Esempio di declaratoria delle competenze trasversali secondo Stefano Paneforte

Le competenze richieste dai diversi ruoli sono state analizzate e descritte alla luce di 13 comportamenti fondamentali, che sono stati raggruppati in tre macro aree di indagine: area cognitiva, gestionale e relazionale.
A ciascuna area corrispondono determinati comportamenti come qui di seguito specificati:

Area Comportamenti
Competenza cognitiva Problem solving complesso
Problem solving operativo
Iniziativa
Accuratezza e qualità
Flessibilità
Competenza gestionale Decisionalità
Tensione al risultato
Organizzazione
Senso delle opportunità e sensibilità ai rischi
Competenza relazionale Comunicazione
Orientamento al cliente
Gestione risorse umane e leadership
Stabilità emotiva

AREA COGNITIVA

In tale categoria rientrano i seguenti comportamenti:

  • Problem solving complesso che rappresenta la capacità di scomporre in modo ordinato, sequenziale, sistematico i problemi e le situazioni cercando di approfondire e conoscere tutti i dati e tutte le variabili in gioco.
  • Problem solving operativo rappresenta la capacità di cogliere rapidamente il nocciolo dei problemi tralasciando i dettagli e di individuare con celerità soluzioni pragmatiche, operative e concrete.
  • Iniziativa corrisponde alla capacità di ricercare e sviluppare in modo autonomo spunti, informazioni, approfondimenti, contatti, opportunità, miglioramenti operativi, ai fini del raggiungimento degli obiettivi assegnati.
  • Accuratezza e qualità rappresenta l’impegno nel garantire accuratezza nello svolgimento del proprio lavoro, in relazione al rispetto dei tempi e delle scadenza, delle procedure interne, delle norme, degli adempimenti amministrativi nella logica della catena cliente-fornitore.
  • Flessibilità è la capacità di lavorare efficacemente in un’ampia gamma di situazioni, con persone e gruppi diversi, di adattarsi ai cambiamenti nel mercato o nell’organizzazione, di risolvere problemi, anche nuovi, velocemente.

AREA GESTIONALE

In tale categoria i comportamenti individuati sono:

  • Decisionalità rappresenta la capacità di scegliere una delle possibilità offerte sul campo di azione, dopo aver verificato le alternative complessive, e di esercitare la discrezionalità all’interno dei limiti di ruolo prescritti, al fine di raggiungere un obiettivo prefissato.
  • Tensione al risultato identifica motivazione e capacità di realizzare performance eccellenti, confrontando continuamente la propria attività con gli standard personali e/o degli altri, anche di fronte a difficoltà ed imprevisti.
  • Organizzazione definisce l’attitudine capacità di stabilire per se stessi e/o per gli altri il percorso che deve essere fatto per raggiungere lo scopo, di pianificare una corretta definizione ed utilizzazione delle risorse (comprese quelle umane).
  • Senso delle opportunità e sensibilità ai rischi rappresenta l’abilità nel riconoscere le opportunità ed i rischi potenziali di una decisione e di negoziare in tempi utili con i diversi interlocutori, una soluzione fattibile sotto il profilo tecnico, economico, finanziario ed organizzativo.

AREA RELAZIONALE

In tale categoria i comportamenti individuati sono:

  • Comunicazione rappresenta la capacità di ascoltare e di comunicare in modo tempestivo ed efficace sia all’interno che all’esterno del proprio settore di appartenenza. E’ la volontà e l’abilità nel mantenere aperti i canali di comunicazione a due vie.
  • Orientamento al cliente definisce la capacità dimostrata di orientare la propria attività verso la soddisfazione delle esigenze del cliente, sia esso esterno o interno, salvaguardando allo stesso tempo gli interessi dell’azienda.
  • Gestione delle risorse umane e leadership rappresenta l’abilità di guidare e motivare gli altri, generando consenso sugli obiettivi da raggiungere. Abilità di motivare e incoraggiare sfruttando al meglio le loro potenzialità. Capacità di trasmettere la visione e i valori dell’organizzazione.
  • Stabilità emotiva E’ la capacità di controllare le proprie emozioni e i propri comportamenti di fronte a difficoltà e provocazioni e di mantenere un livello di attività qualitativamente e quantitativamente elevato in condizioni di stress prolungato.

Qui di seguito si riportano i gradi di approfondimento di tali comportamenti.

Altro esempio di declaratoria delle competenze:

Competenze tecno-realizzative
Analisi
Accuratezza
Autonomia
Creatività
Creazione di know-how
Cura della qualità / alti standard professionali
Decision making
Efficacia/orientamento al risultato
Efficienza / orientamento alla riduzione dei costi
Orientamento al cliente/qualità professionale
Problem solving / decision making
Orientamento all’azione
Segue procedure e aderisce ai valori
Competenze relazionali
Ascolto attivo
Assertività
Comunicazione interpersonale
Cooperazione
Gestione e soluzioni dei conflitti
Comunicazione formale/gestione di riunioni o presentazioni
Gioco di squadra/spirito di squadra
Influenza/leadership
Negoziazione 0
Partnership
Sensibilità interpersonale
Consapevolezza e gestione di sé
Costruisce reti di relazioni e conoscenze
Competenze gestionali
Auto-organizzazione
Energia/gestione dello stress
Gestione dei progetti
Gestione delle risorse umane / dei collaboratori
Gestione dello stress
Gestione dello stress e del tempo
Monitoraggio
Organizzazione
Pianificazione
Pianificazione e monitoraggio
Sensibilità economica
Competenze evolutive
Autosviluppo
Apertura alla diversità e al nuovo
Assunzione del rischio
Flessibilità
Iniziativa
Sviluppo del business
Visione
Guida del cambiamento
Coaching e sviluppo dei collaboratori
Innovazione
Apertura del punto di vista
Gestione dell’incertezza